Relazione sommaria intorno alla coltura viticola in Milazzo, inviata al
Comizio Agrario di Alessandria dal Comm. Stefano Zirilli enologo distintissimo
in Milazzo.
(Pubblicata a puntate su L’Italia Agricola, nn. 19, 20, 22, 23
del 1869 e nn. 1, 2, 3, 4, 5 del 1870).
Stefano Zirilli (1812-1884)
1. L’agro di Milazzo in Sicilia, provincia di Messina, assai
ristretto nella Piana, limitatissimo nel Promontorio, detto Capo, è per la massima parte coltivato a
vigneti.
2. Sono dappertutto le vigne tenute basse, all’altezza non maggiore
di un metro, ed a filari spaziati in tutti i sensi per un metro e 30
centimetri, appoggiate ciascuna a quattro pali di canna, de’ quali uno ogni
anno è rinnovato, talchè ogni quadriennio i pali sono tutti rinnovati. Quasi mai
si vedono condotte a spalliera e raramente a pergolati altro che per delizia.
3. Le pratiche di coltura sono quasi le stesse presso tutti i
nostri viticoltori, salva la maggior o minor diligenza e generosità nel
sussidiar la natura, che per qualità ed ubertosità di terreni, per esposizione,
per clima, per tutto insomma, meno che per acqua, è verso di noi generosissima.
Quindi mi limiterò a descrivere il metodo da me seguito che di poco o nulla si
scosta dal generale.
4. Innanzi tutto mi convien notare che l’uva coltivata quasi
esclusivamente per la vinificazione nell’agro nostro è la Nocera, sia nera, sia bianca. Tutte le altre specie d’uva sono qui
conosciutissime e si coltivano, ma come specialità, come curiosità, per delizia
o comodo privato, non mai a scopo di trarne vino, ma per sola tavola.
5. A ciò forse è in gran parte da attribuirsi la proverbiale
rinomanza dei vini di Milazzo come vini mercantili, per la loro robustezza, per
l’attitudine a resistere alle lunghe navigazioni e per la proprietà singolare
di conservarsi vecchissimi, non solo senza deperire, ma eziandio guadagnando e
migliorando sempre in aroma, limpidezza e soavità, come anche in robustezza.
Ognun sa quanto poco conferisca alla buona riuscita dei vini la miscela delle
uve di diversa specie; e questo merito, questa sana pratica del nostro
territorio è giudiziosa non solo in questo scopo, ma pure nell’altro di
diminuirne lo sperpero, essendochè la Nocera
è l’uva più aspra e men grata a mangiarsi, e per questa via ne va sciupata
molto meno che di qualunque altra qualità.
6. Sembra strano, ma pure è un fatto constatato da secolare
esperienza, che quantunque unica la qualità dell’uva dedicata alla
vinificazione, pure i vini del nostro territorio diversificano estremamente fra
loro, comunque si accostino sempre ad unico tipo; e le differenze si notano non
solo da contrada a contrada, ma eziandio da scacco a scacco nella stessa
contrada, e spesso nello stesso predio.
7. Sempre i vini, parlo sempre dei comuni, da noi conosciuti con la
denominazione di mercantili, sono
rossi-neri, più o meno carichi di colore, a schiuma rossa nel versarsi in un
vaso, piuttosto aspri, robusti perché carichi di parti alcooliche naturalmente;
ma pur sempre tu li trovi qui di un rosso chiaro, colà di un rosso nero che dà
nel violetto, ove più ed ove meno aspri, talora amabili, ed anche alle volte
estremamente dolci, ordinariamente asciutti (sec); e queste differenze ed anche le gradazioni, che i Francesi
direbbero nuances, si riscontrano non
solo da contrada a contrada, e sovente da botte a botte nello stesso magazzino;
sicchè da chi non è perito si direbbero prodotti di diverse uve, eppure è
sempre e costantemente la stessa Nocera.
A me è accaduto e giornalmente si riscontra, che della stessa palmentata (vedi 49) di uva raccolta
contemporaneamente nello stesso predio, uno o due botti sono riuscite di vino
soave ed anche dolce, le altre perfettamente asciutto; eppure il mosto formava
unica massa nella tina e tutte le botti sono state riempite nelle medesime
condizioni.
8. Il catalogo dei miei vini offre numerose varietà, le quali ad
eccezione della Malvasia e del Moscato che sono prodotti di uve
speciali, tutti gli altri provengono senza eccezione dalla Nocera.
9. E’ la natura del terreno, l’esposizione, la clemenza ed inclemenza
delle stagioni, l’età più o men provetta della vigna, la maggior o minor
maturità delle uve, la diligenza o negligenza nel raccoglierle, sceglierle e
specificarle, la più o meno lunga bollitura (53) ed infinite altre cause minori
che influiscono a produrre queste a prima vista inesplicabili differenze.
10. Contribuiscono anche infinitamente i recipienti, ossia le
botti, ed io aggiungerò che a queste debbo gran parte degli ottimi resultati
che ho ottenuto nei miei vini. Epperò difficilmente io mi priverei degli
antichi fusti, nei quali per lunga serie d’anni ho visto quasi direi cambiar di
natura i miei vini.
11. E’ questo fenomeno che si riscontra dappertutto sicchè è
ritenuto come assioma che buona botte fa
buon vino, come buon vino fa buona
botte, molto più si avvera nei vini robusti e generosi come quelli di
Milazzo, i quali soggiornando lungamente nelle botti, il legno assorbisce gran
parte del vino e dei suoi sali, se ne satura, e ne ritiene, direi, l’essenza,
gli effluvi, quello che i Francesi esprimono così bene col loro bouquet, cui la ricca nostra favella non
ha l’equivalente. Or questi effluvi, questa essenza, questi sali le botti le
comunicano ad altri vini e presto e perfettamente.
12. Se infatti voi comprate una botte del mio Marsala, o del Calabrese
o del Mamertino, o di qualunque altro
vino, e dopo di avervene servito, quando sarà vuotata, se la riempite di un
vino leggiero di altre contrade settentrionali, dopo l’anno voi troverete che
il vostro vino sarà irriconoscibile ed avrà molto del Marsala o del Calabrese, ecc.
COLTIVAZIONE
13. Ora ecco in succinto il mio modo di coltivare i vigneti, o per
meglio dire la coltura usata nel territorio di Milazzo:
Per piantar le viti si scelgono i
tralci lunghi almeno due metri da ceppi sani, giovani e vigorosi; con un grosso
palo di ferro si fa un buco nella terra profonda circa un metro, vi si
inserisce il tralcio, che si rincalza di terra fino a tre parti della
profondità del buco perché venga ben costipato.
14. Però i più diligenti agricoltori, quelli che sono meno avari
verso la terra, o dirò più esattamente verso sè stessi, e che mirano ad avere
più sollecitamente un prodotto abbondante ed una vigna più longeva, usano di
preparar la terra a taglio scoverto.
15. Il taglio scoverto è
un profondo scasso e rimescolamento di terra, ordinariamente fatto fino alla
profondità di un metro, in conseguenza del quale tutta la terra a piantare cangia
di posto, e la superficie sfruttata dalle precedenti colture, mescolata con
l’ingrasso per fecondarla, vien sepolta ad un metro di profondità, restando lo
strato inferiore esposto ai raggi del sole. Mi spiego:
16. Si zappa profondamente una striscia o solco di un metro di
larghezza al limitare del terreno a piantare. La terra zappata è lavata con
pale dal solco e depositata sul margine. Sgombrato questo primo suolo, si
seguita a zappare nello stesso solco ed a sgombrare la terra, finchè siasi
prodotta una fossa lunga quanto tutto il terreno a piantare, e larga come
profonda un metro. Accanto a questa, in fondo alla quale si versa del concime,
se ne intraprende una seconda, la cui terra con pale si getta nella prima.
Allorché sarà finita la seconda
fossa la prima sarà colmata, e così si seguita sempre di metro in metro finchè
si arriva al lato opposto, avvertendo che ove il terreno fosse pietroso le
pietre vanno diligentemente raccolte da ragazzi o donne che le portano via. Per
tal modo la terra cangia di posto, vien rivoltata, concimata e sgombra delle
pietre spesso soverchie che nuocerebbero al pronto sviluppo delle radici, cosa
che bisogna più di ogni altra applicarsi a favorire in tutte le piantagioni e
molto più della vigna.
17. Il taglio scoverto, che si fa uno o due mesi prima di paintar
la vigna, ordinariamente in novembre o dicembre, fa crescer di livello la
superficie del terreno, come è naturale, ciò che giova non poco agli ultimi
strati della terra che eran sepolti, perché siano fecondati dal sole, dall’aria
e dalle pioggie.
18. La piantagione sul taglio scoverto si fa sempre, come sopra
ogni altro terreno, verso la metà di gennaio e parimenti con buche di un metro
di profondità aperte con pali di ferro.
19. Dopo quindici giorni si tagliano i virgulti lasciandovi tre
occhi o gemme sopra terra, si zappa questa, si finisce di riempir le buche e si
lega il residuale virgulto ad un palo di canna.
20. A mezzo febbraio con una nuova zappa si scugna la vigna, cioè si torna a zappare fino a cinquanta
centimetri di profondità e si scovrono bene i virgulti per esporli ai raggi del
sole. Dopo sei o otto giorni si zappa nuovamente e si covrono di terra i
virgulti.
21. Alla metà di marzo, e quindi in poi consecutivamente almeno
ogni 20 giorni, si replicano le zappature al piede fino alle prime acque di
agosto, quando sulla terra stessa si sogliono seminar le rape.
22. Nel seguente gennaio, tolte le rape, si scugna nuovamente
e si rimpiazzano tutte le piante che son mancate. Verso la fine di gennaio si
pota la vite del primo anno e si tagliano a tre bottoni sopra terra i
rimpiazzi, ed ogni piede si attacca con due pali di canna.
23. Dalla metà circa di febbraio ricominciano le solite zappe ogni 20 giorni sino ai primi di
agosto.
24. Parimenti
si pratica pel terzo anno, crescendo ad ogni piede un terzo palo di canna, e
così pel quarto.
25. Questo trattamento pei primi quattro anni chiamasi baliaggio
della vigna, che talora si dà ad estaglio ai coloni per lire 102 ad ogni
migliaio di viti, restando a peso del padrone le sole banne dei pali. I
più diligenti proprietari però lo fanno eseguire a conto proprio spendendo
poco più.
26. Al quarto anno la vigna, durando il baliaggio, si taglia
alla fine di gennaio a fior di terra perchè possa rigettare con maggior forza.
27. Dopo del quarto anno, finito il baliaggio, la vigna è
fatta, ed entra nella coltura ordinaria, la quale consiste:
a) Nella scausa, che
è una zappa intorno al piede della vite alla profondità di 20 a 25 centimetri,
in modo da produrre altrettante conche atte a ricevere le pioggie fecondanti.
Questa zappa si suol fare in ottobre e novembre;
b) Nella pota che si fa in
gennaio;
c) Nel fermare in febbraio
le viti coi quattro pali di canna, operazione che si chiama impala;
d) Nelle zappe solite da mezzo marzo a tutto giugno.
28. Molti proprietari usano nelle vigne il lavoro dell’aratro
invece delle zappe, e direi che ne è più generale l’uso speciale della piana.
Il trattamento coll’aratro
consiste in due bonzi, ed ogni bonzo di quattro passate:
Una detta brociato scava
un solco nel centro dei filari nel senso della lunghezza e della larghezza nei
primi di marzo;
L’altra detta tripolo fa
un solco a mezzo marzo in fra i filari nel senso delle due diagonali;
La terza, che chiamasi sbrazziato,
consiste in due solchi per ogni filare accanto ai piedi della vite nel
senso della lunghezza verso mezzo aprile;
La quarta finalmente, chiamata levata
di bonzo, consiste in altri due
solchi nel senso opposto, cioè della larghezza, alla fine di aprile.
29. Il secondo bonzo ripete queste stesse arature a più
brevi intervalli durante tutto il mese di maggio.
30. Molto si è discusso e si discute per sapere se sieno più
proficui alla vigna i lavori di aratro o le zappe, tenuto anche conto della
maggiore spesa che costano queste ultime, le quali in media qui si pagano L.
13 a migliaio di viti, mentre la arature per due bonzi non sogliono costare
più di sette lire per migliaio di viti, senza che niuno abbia potuto
completamente fare ammettere le proprie idee dall’avversario.
31. In quanto a me, non parendomi questo il luogo di svolgere gli
argomenti moltiplici e forti a favore e contro dell’una e dell’altra pratica,
mi regolo, essendo tutti i miei vigneti in perfetta pianura, tenendo la via dei
Beati, cioè maritandole entrambe in modo che adopero le arature pel primo bonzo,
onde scassar bene e profondamente le terre e rivoltarle mentre che le
vigne son sorde, ed uso invece le zappe nel secondo periodo, appena
cioè sono sbucciate, perchè parmi che la grande utilità delle arature profonde
e del perfetto rivoltamento della terra, tuttochè sorretto della maggiore economia,
non possa stare a fronte nè menomamente compensare i danni gravissimi che
necessariamente debbon produrre nelle gemme e negli sbocci i bovi ed i bovari.
32. Anche noi siam soggetti nei nostri vigneti alla crittogama,
tuttoché usiamo le zolforazioni due ed anche tre volte, e con ammirevole
successo, anzi infallibile, vuoi come preservativo a prevenire gli attacchi
dell’oidio, vuoi come correttivo a ripararne le stragi quando è manifestato.
Prima la Sicilia e noi in Milazzo
primissimi fra i Siciliani ad adottarlo e ad avervi fede, probabilmente perchè
ricchi di questo prezioso minerale che trovammo sotto la mano ed a buon mercato
in sulle prime, formò per un decennio, dal 1851 al 1860, la risorsa dell’Isola
nostra, perché produceva ogni anno una mezza annata, quando tutti gli altri
paesi vinicoli, non esclusa la Francia, perdevano l’abitudine del vino, sicchè
i vini in Sicilia ed in Milazzo salirono a prezzi favolosi.
33. Oggi l’ uso dello zolfo è generale fra noi così per le viti
come per molte altre colture, ed anche pe’ fiori, sicché è giustamente chiamato
l’indispensabile.
34. Però dobbiam convenire che sotto l’impero di questa lebbra,
comunque attutita dall’impiego dello zolfo, i vigneti, almeno in Milazzo ed in
tutta la Sicilia, nè presentano la pristina ubertosità, nè danno le antiche
pregievoli e deliziose qualità di vini generalmente parlando. Il più difficile
pei presenti vini è la conservazione nei primi due o tre anni specialmente,
avendo tutti un vizio di origine indefinibile derivante dalla malattia della
vite, compressa, se vogliam dire, ma non guarita dalla zolforazione, epperò
rinascente ogni anno. L’esperienza però di ormai 19 anni mi fa ritenere che i
vini i quali arrivano a superare senza vizi e difetti il terzo anno, non han
più nulla a temere semprechè ben conservati.
35. Generalmente parlando nei nostri vigneti non si ammette altra
coltura, meno che per eccezioni e sempre temporaneamente. Da alquanti anni, per
esempio, si è estesa la coltura degli agrumeti, la quale industria è certamente
assai più proficua, sebben costi immensamente di più ed abbia bisogno dell’impiego
di ingenti capitali; ma siccome questi si spendono a poco per volta, di anno in
anno lungo almeno un decennio, così ogni padre di famiglia si crea per dir
così una cassa di risparmio da sè nella sua stessa proprietà, e dopo 10 o 12
anni di moderati e successivi sacrifizi, si trova quintuplicata la sua
proprietà di valore e di rendita. E siccome in questo periodo nulla o molto
pare si ricava dall’agrumeto, così per non perdere tutto il prodotto della
terra, si piantano gli aranci o limoni o manderini nel mezzo dei filari delle
viti. Però dopo quattro, cinque o sei anni è indispensabile estirpar queste, e
ben profondamente se non si vogliono vedere intristire gli agrumi. Ognun vede
che le due colture sullo stesso terreno in questo caso sono una temporanea
eccezione e di assai breve durata. Più lungamente dura la vigna fra gli
oliveti, che più tardano degli agrumi a svilupparsi, ma pure più o men tardi si
perde per la prepotenza degli olivi e bisogna estirparla.
36. Nè io qui intendo parlare delle rarissime eccezioni derivanti
da circostanze singolari, come sarebbe la estrema ubertosità di qualche scasso
di terreno, in un territorio generalmente ubertosissimo come il nostro, la
quale, sorretta e sospinta da copiose concimazioni e da abbondanti irrigazioni
durante i calori africani delle nostre stagioni estive, sopporta, e bene,
differenti colture, ma pur sempre temporaneamente.
37. Io stesso in una mia vigna, il cui terreno è poderosamente
fertile e che posso irrigare quando e quanto mi piace, ho messo gli alberetti
di limone nel centro dei filari spaziati di metro 1,40 lasciandone tre sempre
liberi, e fra i limoni aveva precedentemente piantati i peschi. La vigna non
ha che 23 in 24 anni, epperò giovane, durando fra noi oltre del secolo quando
non è soverchiamente sforzata. Gli alberi di pesche han già sei anni, ed i
limoni appena due. Prosperano le tre colture sullo stesso terreno a meraviglia,
largamente concimato ben si intende e generalmente irrigato, e se ancora nulla
traggo dai limoni, mi offrono doviziosi frutti la vigna ed i peschi, e per
giunta nelle strisce di terreno non ingombrato fra gli alberi e la vigna,
metto ogni anno delle civaie alternando, come pare, piselli, fagiuoli, ceci,
ecc. Nondimeno calcolo che fra cinque o sei anni i peschi avran finito di
vivere, e sarò obbligato di estirpar la vigna che non mi farebbe prosperare i
limoni divenuti allora adulti.
38. Piccolissimo è il territorio di Milazzo, moltissimi i proprietari,
per cui la proprietà è estremamente frazionata. Ogni proprietario è più o meno
agricoltore in quanto amministra egli stesso la sua proprietà e ne dirige la
coltivazione sopra metodi antichi e tradizionali, non erronei, anzi
sensatissimi, ma suscettibili di molti miglioramenti. Gli strumenti sono
affatto primitivi, e qui vi sarebbe da innovare e migliorar molto. Niuna
istruzione agricola teorica generalmente parlando nei proprietari, moltissima
pratica nella maggior parte. Negli uomini di campagna, qui chiamati Coloni o
Metatieri quasi tutti analfabeti, ingegno svegliato, moltissima
perspicacia, infiniti e ridicoli pregiudizi, ed una testardaggine desolante nell’ opporsi passivamente
a qualsiasi innovazione per la gran ragione che non facevasi dal nonno o dal
bisavo; in generale buonissima pasta di gente, parca e sobria al punto che non
tutti gli anni mangia la carne una volta, se ne togli le feste di sponsali o di
battesimo; laboriosa, senza vizi, se ne potrebbe cavare gran partito se si
pensasse alla istruzione della generazione crescente.
39. Il proprietario dà al colono gratuitamente la casa per sè e per
la famiglia, ed il dritto tacito di mangiar di tutto che produce il fondo senza
limitazione e senza contratto. In corrispettivo il colono e la sua famiglia
hanno il solo obbligo di custodire il fondo.
40. Tutti i lavori sono poi fatti in economia e pagati dal
proprietario a giornate; se non che taluni detti Coltive di mano alle
vigne si danno loro in appalto o ad estaglio per lire 5, 10 a migliare ogni
anno, ed essi se li riserbano, sia per le epoche in cui non trovano altro lavoro,
sia pei giorni piovosi nei quali manca la fatica.
41. Queste Coltive di mano sono :
a) La spala, cioè il raccogliere dei pali di canna dopo fatte le
vendemmie, riunirli a fascio e metterli insieme a piramide;
b) La scansa (27a);
c) La Pota che lascia anche a loro benefizio i sarmenti;
d) La impala (27c). Il padrone rimpiazza ogni anno un palo di canna, il
colono ha 1’obbligo di tagliar le canne, conficcarle nel terreno e legare le
viti ai pali fornendo l’erba secca detta Ziparo per le legacce;
e) La cubausa, cioè
il legare e raccogliere tutti i nuovi tralci intorno ai pali in modo che i
grappoli restino meglio garantiti;
f) Finalmente una piccola
zappa proprio attorno al piede della vite, e perciò detta o piede o piede per smuovere il piccolo scasso di terra più
prossimo al piede della vite, nel quale non passa nè può mai passar l’aratro
nelle diverse sue evoluzioni (28).
42. Finalmente il proprietario dà al colono dieci litri di mosto o
di vino per ogni migliaio di viti, oppure gli concede il permesso di estrarre
le Acquatine (56) dagli avanzi del torchio, che in questo caso si
sogliono lasciare alquanto più succolenti.
VENDEMMIA E
FABBRICAZIONE
43. Verso mezzo luglio le uve cominciano a colorirsi in queste
contrade, ed alla fine di quel mese son già
tutte nere. Sotto la sferza di un sole africano nel mese di agosto maturano,
sicchè ordinariamente dopo la prima settimana di settembre si aprono le
vendemmie, specialmente per le contrade più secche, pietrose e arenose.
44. Le uve sono raccolte dalle donne in ceste, che ripiene,
sogliono votare nei barili. I barili sono trasportati al Palmento da uomini o da asini, e nei palmenti va tutto
confusamente, uve mature e mezzo mature, foglie, ecc.
45. I Palmenti sono tutti e sempre di muratura, come anche le Tine,
più o meno grandi, più o meno numerosi
secondo la estensione dei predi, poichè tutte le proprietà comunque piccole
sono provvedute di queste fabbriche, di uno o più torchi e di magazzini per la
conservazione del prodotto.
46. I Palmenti sogliono essere della capacità da 10 a 30 Botti
nostre (5000 a 15000 litri). Le Tine sono sempre di capacità un terzo meno dei
Palmenti, e sottoposte a questi di circa due metri e mezzo, di modo che il
mosto per un canale praticato nel muro divisorio passa dal Palmento nella Tina.
Ordinariamente per le proprietà di una mediocre importanza si hanno almeno due
Palmenti con una Tina comune.
47. A misura che le uve sono scaricate nei Palmenti, due uomini le
ammassano contro le mura per riporne quanto più si può, sempre in proporzione
della capacità del Palmento. Allorchè la Palmentata è completa ed anche sin dallo
arrivo delle prime uve,
allorchè si vogliono dei vini fini amabili e poco coloriti, incomincia la pesta,
e si fa colare il mosto nella tina. Questo mosto chiamasi lagrima, e
passa tosto dalla tina nelle botti. Gli uomini del palmento, chiamati Pestatori,
mentre pigiano coi piedi, con le mani sgrappolano, gettando fuori dal
palmento quanto più possono dei graspi.
48. Pei vini comuni però, specialmente quando si vogliono molto
carichi di colore, foncés, si fa riposar l’uva per 24 ore nel palmento.
Quando però questo è pieno si punge, ossia si apre il canale di
emissione, e tutto il mosto che spontaneamente si è sprigionato dalle uve pel
peso delle superiori sulle inferiori, si precipita spumante nella tina. Quindi
l’uva vien pigiata da cinque a dieci uomini a piedi nudi, che la stritolano in
tutti i sensi, obbligando
il midollo degli acini a fondersi anche esso; e la pigiatura si replica tre
volte ammonticchiando contro le pareti con pale l’uva già piggiata, e
riportando con le zappe l’altra sul fondo del palmento per sottoporla alla pesta,
durante la quale il mosto percola sempre nella tina.
49. Terminata la pesta di tre
piedi, che riduce l’uva a
guisa di pasta e quasi
asciutta, si rivolta il mosto dalla tina nel palmento, ove bolle spontaneamente
tutta la notte seguente in contatto con la pasta, e bollendo macera gran parte
della corteccia dell’uva.
50. All’ indomani si torna a pungere il palmento per separare il
mosto dalla pasta, e questa volta, per impedire che col mosto scappino degli
acini non ancora ben schiacciati, si applica all’orifizio di scolo una cesta,
che quando è piena di acini vien supplita da altra.
51. Allorchè la pasta è discretamente asciutta a via di pressione
dei piedi, mentre si trasporta il mosto, che così ottenuto chiamasi mosto bollito,
dalla tina nelle botti, la stessa pasta vien raccolta in cestelle
rotonde di pezzolo dette Sporte, e a dieci per volta una
sull’altra vengono sottoposte al torchio
per estrarne gli ultimi succhi.
52. Il prodotto del torchio, detto gaspatura o torchiatura,
vien ripartito nelle stesse botti ed in quantità proporzionali, e le botti
si riempiono finchè fra il cocchiume e la superficie del mosto resti almeno un
decimetro di spazio, nè si attappano, giacchè immediatamente comincia la
fermentazione tumultuosa.
53. I residui del torchio, cioè la corteccia ed i granelli
dell’uva, e la parte dei graspi che sempre resta nel palmento, o tutti i graspi
ove non si ha l’abitudine di sgrappolare, vanno talora gettati nuovamente nel
palmento e diluiti con acqua, la quale si lascia per 24 ore macerare quei
residui. Quindi si pigia anche una volta, e si rimette al torchio. Se ne cava
una bevanda molto colorita, sì che la si direbbe mosto, abbastanza spiritosa,
sommamente aspra ed amarissima, tanto più quanto più abbondano i graspi, che
non è acqua nè vino, detta Acquatina, la quale tien luogo di vino ai
poveri coloni durante l’inverno, e nella state, se ancor ne resta, diviene
aceto.
54. Gli avanzi di questa seconda manipolazione, che escono dal
torchio estremamente disseccati, si ammonticchiano al coperto, e dopo cessata
in essi la fermentazione nel mese di novembre si bruciano in fornelli improvvisati con pietre a secco, e
ridotti in cenere, serve questa ed è eccellente per la fabbricazione della
soda, e molto ricercata pel saponificio. È ben naturale che pria di bruciarla
ne vien separata la vinaccia, che si dà nell’inverno ai polli.
55. Dopo otto o dieci giorni, calmata nelle botti la fermentazione
tumultuosa, si suol coprire il cocchiume con una foglia di vite o meglio con
uno straccio, fermando l’una o l’altro con una pietra o un mattone.
56. La fermentazione intanto prosegue a fare il suo corso ma molto
più calma. A capo di un altro mese circa, spenta la fermentazione apparente, si
attappano accuratamente le botti, ed i tappi si murano con creta.
57. Non prima di mezzo gennajo, ed ordinariamente in febbrajo, nel
centro del freddo, che per noi è raro, fino a tutto marzo, si tramuta il vino,
e nella tramuta le botti sì riempiono a tappo lavato.
58. In
Milazzo non si conoscono cantine nè sotterranei di alcuna natura. I vini si
conservano così in campagna come in città in magazzini a pianterreno bene
aerati e ventilati, ordinariamente coverti da semplici tettoje nei quali,
nonostante gli eccessivi calori della state, i vini non soffrono per questo. La
mancanza di cantine io credo sia da attribuirsi a due cause; una che le ha rese
di impossibile esecuzione in città tutta circondata dal mare, nella quale a
qualche metro di profondità si incontra l’acqua; e l’altra che non si è fatto
mai sentire il bisogno, poichè, salvo i rari momenti di incaglio del commercio,
i vini si vendono presto appena fatti, spesso ancor mosti passano dalla tina
sui bastimenti, ed è molto raro che un proprietario conservi la massa della sua
produzione per due anni invenduta; ed anche perchè la natura dei nostri vini è
cosi buona che non patiscono per mancanza di cantine. Io conservo parte dei
miei vini più vecchi anche nei pianterreni della mia casa sotto solare in
taluni punti non più alto di 4 metri, eppure mai ho avuto a pentirmene. Nei
magazzini il vino è riposto in botti di varia capacità dai 15 ai 5 ettolitri.
Le botti sono ordinariamente di castagno.
Descritti così sommariamente i metodi di coltivazione e di
vinificazione, passiamo ora ad analizzarli per rimarcare il buono da imitare,
l’erroneo da correggere, il migliore indirizzo da dare alla enologia
milazzese.
60. Poco credo si possa censurare dei nostri metodi di coltivazione
della vigna, a parte degli strumenti agricoli, perchè pajonmi logici e bene
appropriati alla natura dei nostri terreni ed al nostro clima.
61. Forse il taglio scoverto (15) che per sè stesso intrinsecamente
è senza contrasto un eccellente metodo, non è per tutti i nostri terreni,
generalmente feracissimi, sempre consigliabile, perchè:
1° Costa moltissimo e talvolta
forse più che il valore del terreno, e non sempre rimunera proporzionatamente;
2° Nelle terre sommamente feraci
come la maggior parte delle nostre, specialmente nelle parti basse e nel cuor
della Piana, applicato alla coltura della vigna, la fa crescere con
straordinario rigoglio e talmente lussureggiante in tralci e foglie, e così
poco in fruttificazione, che in taluni miei vigneti già è il settimo anno che
produco pochissimo, e questo poco per soprabbondanza di umori marcisce pria di
maturare. Invano ho cercato correggere questo danno con la pota, la vite
vegeta sempre lussureggiante, e l’uva si è infracidita anche quest’anno pria di
maturare, mentre ha vigna è prospera si che la si direbbe già di 15 anni.
3° Perchè in cosiffatti terreni, resa troppo friabile la
terra fino alla profondità di un metro, gli ardori africani della state vi
penetrano assai profondamente, e non temperati sempre dalle pioggie estive,
sommamente rare da noi, mentre spingono da un lato la esuberanza della vegetazione,
l’assiderano dall’altro e precisamente nell’epoca del passaggio delle uve (véraison), epperò infracidiscono.
Quindi, pur commendando in generale questa coltura e specialmente per gli
agrumeti, in quanto alla vite la consiglierei nei soli terreni magri del nostro
territorio, assai scarsi invero, o nei
compatti.
62. Parmi soverchia la profondità di un metro che si dà alle
piantagioni, specialmente ne’ terreni forti, e credo che vegeterebbero assai
meglio le radici e meglio attecchirebbero se meno approfondate perchè più aerate;
e senza andare all’estremo opposto delle piantagionii assai superficiali che si
fanno in Francia, forse utili colà perchè non soggette alla sferza del nostro
sole ed alle lunghe ed ostinate siccità delle nostre contrade, dovendo rifare
in questo vegnente anno un mio vigneto, mi propongo di non andar più profondo
di 60 centimetri, appunto perchè il sottosuolo non presenta che un antico
letto o deposito di torrente molto pietroso. Sarà questa un’altra prova che
scandelizzerà i nostri viticoltori, ma io credo che valga la pena di tentarla.
63. Parimenti soverchia credo la distanza cui si mettono nel
territorio di Milazzo le viti, specialmente in vista della eccezionale feracità delle nostre terre,
distanza che spesso arriva fino a m. 1,40 in tutti i sensi. Forse basterebbe m.
1,10 a 15, e
probabilmente questa modificazione conferirebbe alla migliore e più economica esecuzione delle colture e a render
più copiosi i prodotti. Ad ogni modo converrebbe farne lo esperimento, ed io lo
tenterò egualmente nella ripiantagione suddetta.
64. Un’altra pratica, se non censurabile, certo non lodevole, è
quella che tradizionalmente si usa allorchè per decrepitezza si estirpa un
vigneto, di lasciare ozioso il terreno per quattro anni, contentandosi
solamente di tenerlo a semineri per quell’intervallo, che si dice di riposo.
Ciò è prescritto quasi come assioma fra’ nostri agricoltori, onde la terra,
quasi esausta per la secolare permanenza del vigneto, si rifaccia, si ricostituisca, si rinfranchi con un lungo
riposo. Ciò sta bene, ma torna il conto? Certo che no. E non converrebbe meglio
rinfrancare il terreno coi mezzi che suggerisce la sana agricoltura, cioè le
zappe, gli aratri, le concimazioni?
Ed è poi certo che i nostri terreni vengano in tale stato di esaurimento che
non possano sopportar bene la immediata ripiantagione della vigna?
65. In appoggio di queste interrogazioni io ho il seguente fatto.
Nel 1861 mi pervenne per dritto ereditario un vigneto che fino a quell’epoca
dal 1828 fu tenuto in usufrutto da una vedova mia parente. Questa signora, che
dal vigneto in parola traeva la sua principale risorsa, nel 1836, poco
fruttandole perchè vecchio, nè potendosene privare per otto anni, aguzzò 1’ingegno
nella sua condizione di usufruttuaria, e speculò di piantar ha nuova vigna
negli intervalli della vecchia, che conservò. Crebbe abbastanza bene la giovine
pianta, non ne scapitò troppo la vecchia vigna, che anzi direi rinvigorì per le
cresciute colture del baliaggio, e ricordo bene al 1841 due produzioni. Nel
1842 estirpò la vecchia vigna, e d’allora la giovane prosperò e ingagliardì, si
che ora dopo 33 anni è uno dei migliori e più ubertosi dei miei vigneti.
Or se quel terreno, che non è dei
più feraci della Piana di Milazzo, nè dalla vecchia usufruttuaria mai
concimato, anzi sempre magramente coltivato, fu capace di portar per sei anni contemporaneamente due vigneti; se
il novello potè nascere e crescere bene nonostante la permanenza del vecchio,
se oggi, provetto alla sua volta, prosegue ad essere ubertoso, oh perchè si
dovrà credere non si possa nei nostri terreni estirpar la vecchia vigna ed
immediatamente ripiantarla? E’ anche troppo che si perdano quattro anni di
produzione mentre la vigna è in baliaggio per andarne a sacrificare altri
quattro di riposo. Convengo che i nostri antichi han sempre fatto così e se ne
sono trovati contenti; ma del pari non mi è ancor dimostrato che non si possa
fare anche bene o meglio, e con maggior tornaconto imitando con discernimento
ciò che la mia vecchia parente fece per solo bisogno con ottimi resultati. E
poi se si crede il terreno di una vecchia vigna sfruttato, esaurito, chi
impedisce di restituirgli la fecondità con sagge concimazioni? Infin dei conti
perchè non tentarlo? Io ne farò la prova nel venturo anno nella vigna che dovrò
rifare. Non bastandomi i maglioli per tutta, ne svellerò una metà, che
ripianterò immediatamente negli intervalli della vecchia divelta. Nel 1871 mi
propongo rifar l’altra metà senza estirpar la vecchia.
66. Ad onta
delle prediche ex catedra di taluni
professori io consiglierei sempre ai miei conterranei di avvicendare i lavori di
aratro con le zappe come ho detto (31). Questa lodevolissima pratica, che non è
solamente mia né di mia invenzione, ma seguita da molti dei nostri viticoltori,
e ab antiquo pure raccomandata, offre
anche il vantaggio di smuovere il piccolo scacco di terreno prossimo al piede
della vite, nel quale non passa nè può mai passar l’aratro nelle varie sue
evoluzioni, e che resterebbe perciò incolto; tanto che nel sistema delle arature
esclusive con due conzi bisogna sempre far sparire questo inconveniente con
apposito lavoro di zappa detto o piede o
piede.
È un bel dire che : «chi ara la
vigna nel maggio sa ridersi di qualunque siccità, dappoichè la quantità e
qualità del mosto che ricava gli compensa troppo i pochi danni che facciano i bovi, i quali ordinariamente si limitano
a danneggiare la produzione e non mica la vigna».
A questo mio contraddittore
anonimo io mi limiterò pria di tutto a far rimarcare che non è poco il danno che gli aratri fanno nel maggio
anche alla produzione, e specialmente i nostri aratri, e lo convincerei
facendolo a quell’epoca entrare nei nostri vigneti, nei quali dopo il passaggio
dei bovi non restano più gemme ne’ fiori, non solamente per gli urti ed il
fregamento dei bovi, specialmente negli svolti e nei ritorni, ma pure e molto
più per la sferza incessante che danno alla vigna con le loro code sempre in
movimento in quella stagione per liberarsi dalle mosche ed esilararsi dai
calori. Nè posso ammettere con lui che sieno «gravissimi i danni che arreca
l’uomo con la zappa appena il ferro si incontra con la vite» che nel solo caso
inammissibile di assoluta imperizia, ciò che non è nei nostri bracciali. In
ogni caso certo l’uomo è infinitamente più intelligente e guardingo del bove.
67. Senza sconoscere in
tesi generale l’utile prescrizione di tutti i buoni agricoltori di escludere
qualunque coltivazione contemporanea a quella della vigna sul terreno di essa,
pure, in vista sempre della singolar fertilità dei nostri, non parmi condannabile
la pratica dirò quasi generale dei nostri proprietari di coltivare nei filari
delle vigne delle civaje come fave, piselli, fagioli, ceci, lupini , ecc.,
qualche volta granone, assai di raro orzo o grano, avvicendando tutti gli anni;
e la trovo utile e la seguo per le civaje esclusivamente perchè:
1.° Risparmia la spesa del secondo conzo di aratro (29), e
precisamente in un’epoca in cui nol dirò dannoso ma esiziale (mel perdoni il
mio contraddittore) alla fruttificazione della vigna;
2.° Dà un profitto che compensa
la metà quasi della spesa dì coltura;
3.° Mantiene la vigna sempre
fresca dì state, sgombera di male erbe, ed il terreno sempre smosso per
le continue sarchiature che esigono le civaje; imperciocchè queste seminagioni
si danno per lo più in gabella ai coloni, i quali con le rispettive famiglie
son sempre lì intorno a curarle a zapparle, precisamente nella stagione in cui
starebbero oziosi per la cessazione dei lavori;
4.° Il nutrimento che attingono
dalla terra è affatto superficiale, ed è largamente poi rifatto dal concime che
i coloni vi spandono per farle prosperare.
5.° Finalmente è una misura di
equità che offre ai nostri poveri coloni il mezzo di industriarsi e nel tempo
stesso una risorsa per l’inverno, mancando totalmente nel nostro territorio i
terreni seminatori.
68. È fuori dubbio che la zolforatura è un efficace preservativo ed
una cura infallibile per la vite attaccata dalla crittogama; ma da che si è
dovuta adottare è sensibilmente cresciuta la spesa di coltura, la quale costa
da noi per zolfo e spargimento da 6 in 7 lire per migliaio di viti in tre
passate, quando i venti o le pioggie non vi obbligano a rifarle immediatamente;
ciò che è un 50 % più di quanto era la spesa di coltura prima. Sarebbe molto
utile e desiderabile nello interesse dei produttori e dei consumatori qualunque
espediente o ripiego che minorasse questa spesa senza scemarne i resultati. In
questa veduta e nell’altra di attenuare il disgustoso odor di zolfo che
talvolta si mantien tenace nel vino anche dopo il secondo anno, ho voluto
provare il miscuglio di cenere e zolfo proposto dal prof. Egidio Pollaci al
Congresso dei Scienziati italiani nel 1862. Indipendentemente dalle valide ed
autorevoli assicurazioni di ottima riuscita di esimi agricoltori che 1’hanno
adoperato, mi convincevano le ragioni del Pollaci, cioè la ricchezza di
potassa caustica della cenere, l’impalpabilità della polvere che doveva
resultar dal miscuglio, il più facile spandimento e l’aderenza maggiore sulle
foglie e sui grappoli, lo scemato odor di zolfo nel vino, e finalmente la
economia del 70%. Però ho dovuto prontamente desistere alle prime prove perchè
le due parti di cenere in misura che si richieggono, o la metà in peso, mi
tornava non che difficile, impossibile, di trovarla recente in grande massa (10
a 12 quintali) ed a farla fare espressamente mi sarebbe costata più forse dello
zolfo. Per altro in questo anno qui in Milazzo, e per quanto ne sentiamo quasi
dappertutto, la crittogama si è mostrata appena e non in tutti i vigneti,
talchè nel sossopra non si è consumato che dal quarto al terzo dell’ordinario
consumo di zolfo.
69. Il solfuro di calcio assai allungato proposto dal signor
Peyrone di Torino, senza discutere della sua efficacia, e pure ammettendola,
parmi poco applicabile nella pratica alla grande coltura; imperocchè, stando
alle di lui prescrizioni, abbisognandone 100 litri per ogni mille viti, per 200
migliaia non mi basterebbero forse 200 ettolitri, supponendo che questa misura
dovesse bastare per tre solforazioni.
Quindi sorgerebbe il bisogno di
un magazzino e dei recipienti per preparare almeno 100 ettolitri e tenerli
pronti per l’epoca indicata, non che dei recipienti minori per andarlo
spargendo nelle vigne, dei veicoli per trasportarlo nelle diverse contrade, un
chimico per fabbricarlo; e tutto questo certamente non sarebbe economico, molto
più riflettendo che le sulforazioni debbonsi fare ciascuna contemporaneamente
nei diversi vigneti spesso molto distanti i fra loro, per cui è forza preparar
la composizione anticipatamente; tutte cose imbarazzanti e certo non economiche.
Per altro io mi accosto all’opinione di coloro che credono il rimedio per
vincere la crittogama dovere essere in polvere anziché liquido. Forse questo è
un pregiudizio derivante dall’abitudine. Gli esperimenti potrebbero fissarci,
come anche tornerebbe utile provare il liquido Gandolfi, del quale pure dicono
mirabilia. Io non ho voluto sperimentare per le mie vigne il solfuro di calcio
Peyrone sì per le accennate difficoltà scoraggianti, come per la trista prova
che ne ho fatto nella cura del mal di gomma degli agrumi, contro del quale mi
fu consigliato con quasi certezza di riuscita. Non uno di varie centinaja d’alberi
ho potuto salvare con questa medicatura nè con altre.
70. Replico stimar gran fortuna per la viticoltura che la
crittogama pare volga nel ramo discendente della sua parabola, e faccio voti
con tutti i possessori di vigneti perchè scomparisca del tutto presto, onde ci
liberi dal danno nella produzione e dalle beffe dello zolfo. E questo
desiderio mi permetto nudrire con convinzione, non ostante le osservazioni
dell’anonimo mio contraddittore sopralodato, il quale in proposito del mio
paragrafo (34) di questa relazione notava: «essere questa osservazione in aperta
contraddizione colle osservazioni fatte nelle regioni etnee, dove si arriva a
credere che, anche dopo cessata la crittogama, converrà continuare a solforare
le viti per mantenerne il rigoglio e la ricca fruttificazione».
Forse che nelle regioni etnee (si
rilegga di grazia il citato (34)) le viti, dopo la manifestazione della crittogama,
sono state più ubertose ed han prodotto dei vini migliori di prima? Se ciò è
accaduto, convengo che, non la mia rimarca (34), ma la natura è stata, se non
contraddittoria a sè stessa, certo assai bizzarra ed anomala, facendo
scaturire eccezionalmente in quelle contrade etnee migliore e più abbondante
prodotto dalla vite ammalata che non dalla sana. Certo si è che in tutte le
regioni viticole di Europa si sono deplorati e si risentono tuttavia i danni ed
i guasti della crittogama, e son convinto che le fertili contrade etnee ne han
sofferto la loro parte.
Nè sono lontano dall’ammettere
col mio contraddittore che lo zolfo possa conferire come stimolante quando non
sarà più necessario come curante. Però è ancor da studiare il modo e la misura
dell’adoperarlo, perchè invero la somministrazione attuale è grave per la
spesa, massime ove non esiste il minerale, ed evitando per l’odor nauseante
che comunica al vino.
71. Ho avvertito (4) che il vitigno generalmente coltivato
nell’Agro di Milazzo è la Nocera quasi esclusivamente. Aggiungo alle
considerazioni fatte (5) che questa non solo è una sana pratica, ma che pure
sarebbe desiderabile, l’unicità del vitigno, vederla imitata in tutte le grandi
coltivazioni, nello scopo
di produrre buoni e pregevoli vini mercantili resistenti agli anni ed
alle lunghe navigazioni, e nell’altro di facilitare ed abbreviare i lavori
della vinificazione, rendendoli perciò più economici, come pure nello intento
di ottenere unico tipo di vini comuni. Questo io riguardo, in consonanza dei
voti che fanno tutti gli enologi pei vini italiani così vari e variabili di
gusto e di sapore ad ogni contrada e in tutti gli anni, lo intendimento
fondamentale della nostra grande produzione vinicola, il cui obbiettivo deve
essere di offrire al commercio grandi masse di vini sani, sempre di unico tipo
e a buon mercato.
72. Però non vorrei essere rigorosamente esclusivo in siffatto
precetto, imperocchè penso e son convinto che anche i vini di lusso, fatti per
le classi agiate e per le opulenti, debbono ottenere ha loro parte discreta
nelle grandi coltivazioni, e specialmente in taluni terreni che più si prestano
alla coltura di vitigni fini e
prelibati. Quindi sarebbe desiderabile che pure i viticoltori di Milazzo si
determinassero ad adottare, anche in piccole proporzioni dapprima, degli altri
vitigni più pregiati come la Malvasia, il Moscato, ecc. Solamente è da raccomandare
che ogni specie sia piantata, coltivata, raccolta e vinificata separatamente.
73. E ripeto queste, che stimo prudenti e necessarie
raccomandazioni, non ostante le osservazioni del mio solito contraddittore, il
quale mi ricordava: «la eccellenza del vino di quel decimario che avanzava in
qualità tutti i produttori dai quali la decima si ritraeva». Imperocchè non
solo i diversi vitigni sono di indole differente e maturano qual pria qual
dopo, ma anche lo stesso vitigno in diverse contrade offre diversi resultati,
dipendenti dalla natura del terreno, dalla esposizione e da mille altri
elementi (7 e 9). Senza contraddire il fatto del decimario, e senza ritenerlo
come tante altre favole che pur si spacciano, mi basterà riferire un fatto costante
inoppugnabile che sta in perfetta opposizione con quello.
In Milazzo da tempo immemorabile
si sogliono retribuire con prestazioni di mosto i servigi del medico, del
chirurgo, dell’avvocato, ecc. Ciascuno di essi raccoglie ogni anno delle
partite di mosto di qualche entità, dai 200 ai 400 ettolitri, che sogliono chiamarsi
partite collettizie perchè provenienti da diversi clienti a 3 o 4 ettolitri
per uno, epperò di varie contrade vinificate qual prima qual dopo.
Questi mosti quantunque tutti di Nocera,
sono sempre i lotti più scadenti che si offrono in vendita sulla piazza, ed
i primi che si cerca di vendere dal medico, dal chirurgo, ecc., appunto
perchè, sebben tutti provenienti dallo stesso vitigno, pure perchè non tutti
vendemmiati lo stesso giorno e nelle stesse condizioni, e perchè diversamente
fermentati, costituiscono delle qualità scadenti e poco apprezzate, e quando si
ha la sventura di non venderle presto facilmente si perdono. Quid dicendum poi
se fossero mosti di diversi vitigni?
74. Non ignoro che in molti paesi vinicoli e specialmente in
Francia si soglion maritare con discernimento le uve di diversi vitigni, che,
aiutandosi e correggendosi reciprocamente, finiscono per produrre buon vino. Ma
noi non siamo in Francia nè in quelle condizioni. Ivi la diversità di vitigni
nei vigneti ha creato la necessità di studiarne l’indole per accoppiarli
giudiziosamente. Ma in Milazzo che il vitigno è unico da tempo immemorabile, ed
ha dato sempre buoni resultati, sarebbe follia cangiar la via certa per la
problematica, massime nella ignoranza in cui sono i nostri viticoltori di
saper studiare e conoscere le indoli dei vitigni non solo, ma anche il modo e
la misura del mescolarli opportunamente.
75. Abbiamo bene in Sicilia delle località, ed anche molto prossime
alla Piana di Milazzo, i cui vigneti presentano un’accozzaglia di più che
trenta varietà di vitigni, le cui uve in ottobre vanno confusamente al palmento.
Ma quai vini se ne traggono? Ve lo dicano quei proprietari che alla fine di
marzo debbono provvedere le loro dispense mentre hanno ancor piene le cantine.
Concludo quindi, con buona pace del mio contraddittore, raccomandando, in
generale come buona ed imitabile pratica quella di unico vitigno seguita in
Milazzo, ed ai miei conterranei di non deviare per spirito di novità da questa
buona via, consigliandoli bensì di provare altri vitigni più fini, ma
separatamente coltivati e vinificati gli uni dagli altri.
76. Taluni proprietari, sebben pochi, concimano i loro vigneti con
concime animale nello scopo di accrescere la loro produzione; e questo scopo lo
raggiungono a spese però della durata e della qualità del vino, che risulta
dolciastro floscio, talvolta coll’odor di terra; perchè le uve assorbono
facilmente gli aromi, ed i più tristi a preferenza, non solo delle materie
fecali ma anche delle ree piante che nascono spontanee intorno alle loro
radici, e li tramandano al vino. Essi non se ne accorgono, contenti del produr
molto, perchè vendono il loro prodotto appena fatto, anche prima di divenir
vino; ma se ne accorgono bene i compratori che facilmente e presto lo perdono,
se lo spediscono in lontani paesi, o i consumatori che trovano una bevanda
molle e nauseabonda; per cui in ogni modo ne deriva discredito alla reputazione
dei nostri vini. Oltrechè i nostri terreni sono per sè stessi poderosamente
fertili ed il nostro sole sommamente fertilizzante da non aver bisogno in
generale di concimazioni; pure io non consiglierei per le vigne da vini mercantili
che concimi vegetali ed anche meglio concimi misti o complessi, nei quali in
minima proporzione entrino gli animali, che soli possono ridare alle terre gli
elementi molteplici dei quali si trovano in difetto. Pei vini fini, quelli che
i francesi chiamano grands vias mai concimi, tutto al più delle terre
nuove, perchè gli ingrassi di qualunque natura farebber perdere le migliori
loro qualità, la finezza, la squisitezza del gusto, l’aroma. Aggiungo che i
concimi animali in Milazzo per la mancanza assoluta di pastorizia, derivante
da inesistenza di pascoli, sono estremamente rari e cari.
77. Avvertirò per semplice notizia che in tutto il territorio
propriamente detto di Milazzo, ed in tutta la vasta Comarca che da questa
città prende il nome, non solamente la crittogama par che prometta di darci
definitivamente un addio, che auguriamo eterno; ma ben pure non abbiamo finora
(novembre 1869) alcuna traccia del Mucor granulato osservato primamente,
credo, dal signor Julié, e confermato poi dai chiari nostri chimici Cardone ed
Erba nel Bollettino dell’Agricoltura. Questo Mucor dapprima
diffuso sotto la corteccia alla base del tronco della vite, si espande poi
gradatamente alle parti superiori. Esternamente, dicono, la corteccia
comparisce tappezzata di ricettacoli tenui biancastri con leggieri gonfiamenti
rinchiudenti insetti microscopici ditteri a sangue nero. I prelodati chimici
attribuiscono questa malattia, che pare distrugga la vite, allo esaurimento
della terra, epperò sperimentarono varie sostanze fertilizzanti, non saprei con
quale esito.
78. Neppure idea abbiamo fortunatamente, fra tante sciagure agricole
che ci conturbano, del Phylloxera vastatrix, insetto che ha sparso la
desolazione nella Borgogna e nel Bordelese ed in tutto il mezzogiorno della
Francia, e del quale, per quanto siesi finora studiato, non si è potuto ancor
penetrare d’onde e perchè si genera ed il mezzo di distruggerlo. Una
Commissione dl eminenti scienziati e di viticoltori competentissimi, nominata
dalla Società degli Agricoltori di Francia, ha ultimamente visitato tutti i
dipartimenti e le località maggiormente desolate, e non è riuscita che a
costatare il danno enorme senza poterne indicare i rimedi, per cui si è dovuta
limitare a raccomandarne lo studio a tutti gli interessati ed agli uomini
competenti. Attacca anche esso le viti e ben presto distrugge i vigneti.
Abbiamo solamente sofferto,
sebbene parzialmente, i danni che un piccolo verme ha prodotto negli acini dell’uva,
ma non si è potuto ancor discernere in questo primo anno se si attacca dall’esterno,
o pure si ingenera nell’acino stesso come il verme delle olive. Questo fenomeno
si è manifestato mentre l’uva era acerba. Alla maturazione gli acini attaccati
si sono infracidati. Però, come diceva, in questo primo anno il danno è stato
molto parziale, a salti e non in tutti i vigneti.
È utile studiar meglio e sin dal
principio nel venturo anno questo nuovo fenomeno, come pure è indispensabile
di star sul chi viva in quanto al Mucor ed al Phylloxera.
79. Molte riforme, come ho detto (60), meritano i nostri strumenti
agrari, i quali ritraggono la loro origine dall’epoca saracena e probabilmente
dal padre Noè, specialmente gli aratri e le zappe, che incompletamente fanno
il loro officio e con grave fatica degli animali e degli uomini, e molto
maggior dispendio di tempo e di danaro; ma la introduzione di nuovi strumenti
perfezionati, e di nuovi metodi di coltura, dovrebbe esser fatta sagacemente, avendo
sotto la mano una generazione di villici non abituata e sommamente recalcitrante
alle novità. Questi miglioramenti non possono attecchire veramente nelle nostre
contrade se non quando 1’agricoltura razionale, e non la pratica solamente,
sarà professata dai nostri proprietari con vero amore ed intelligenza, e con
la convinzione che l’arte e la scienza arrivano a centuplicare le forze della
natura per quanto grandi, e che vale assai meglio di ben coltivare una modesta
proprietà che di possedere estesi predi mal coltivati.
80. Tutte le Comuni della Sicilia dovrebbero obbligatoriamente
istituire nelle loro Scuole comunali delle lezioni di agricoltura insegnanti
specialmente le materie relative alle proprie colture, e delle Scuole rurali
nelle campagne con dei poderi-modello. Perchè non si destinano a questo nobile
scopo dei terreni appartenenti alle disciolte Corporazioni religiose, che in
tutte le Comuni della Sicilia esistono doviziosamente, tanto più che la legge
di scioglimento ne ha riserbato ad esse una parte? Qual miglior destinazione di
questa e di una utilità più reale e generale? Da questi poderi-modello
partirebbero non solo la istruzione pei giovani villici, ma ben pure lo esempio
e gli imitamenti pei proprietari, e specialmente lo stimolo dei resultati, essendochè
molti sono principalmente ritenuti e si peritano per l’incertezza di questi.
(…)
Facciamoci ora ad esaminare partitamente le operazioni della
vinificazione descritte ai paragrafi 43 e seguenti.
101. Col metodo da me ivi descritto si
ottengono dei vini che oltre alle proprietà già menzionate (87) sono
generalmente nerissimi, ma col tempo scarica la parte colorante, ed a poco a
poco se ne spogliano cogli anni fino a divenire giallo-paglini, quasi come vini
bianchi. Questo scoloramento avviene più rapidamente quanto più frequentemente
si tramutano, e più presto nei piccoli che nei grandi fusti, più presto ancora
nelle bottiglie che nei fusti. Non si conosce 1’arte di chiarificarli, anzi si
temerebbe di deflorarli quasi con la collatura. Dopo qualche mese che un vino è
imbottigliato se lo servite in tavola, il sedimento che vi si è formato e la
camicia che internamente riveste la bottiglia si rimescolano col vino e lo
rendono una specie di crema repugnante.
102. Epperò non saprei abbastanza insistere non solo sulla utilità di
chiarificare meccanicamente i vini, dopo che avranno chiarito naturalmente, ma
eziandio sulla rigorosa necessità di questa operazione, la quale, a mio
credere, basterebbe essa sola per rendere i buoni vini nostri veramente
imperituri ed atti ai lunghi viaggi per mare e per terra.
103. È un grave errore il non aspettare la
perfetta maturazione per raccogliere le uve, ed il giudicare ad occhio e per
pratica dell’epoca di vendemmiare; forse è il maggior male che si faccia ai
vini di Milazzo. Molti dei nostri viticoltori ai primi di settembre sono come
colpiti da una idea fissa, da una smania, da una specie di febbre
vendemmiatrice inesplicabile, sì per levarsi il pensiero quanto prima, e si
nella veduta di raccogliere maggior quantità di prodotto, che si affrettano a
vendere alle prime richieste, e spesso dal palmento ancor mosto, poco curando
la riuscita del vino, ciò che ha molto contribuito e conferisce a discreditare
i vini di Milazzo. Intanto incominciando uno obbliga tutti i vicini a fare altrettanto,
e questi gli altri in una periferia maggiore, sieno o no mature le loro uve,
per non vederne la certa spogliazione.
104. Appena si apre la vendemmia uno sciame di
gente a migliaja si abbatte sulle nostre campagne e sotto il mentito pretesto
di raccogliere i residui sfuggiti ai vendemmiatori, detti comunemente scancocci,
rubano dappertutto l’uva ove prima la trovano. Giovani, vecchi, donne, fanciulli,
validissimi e non poveri, tutti si danno a questa spogliazione, coadjuvati da
coloro che comprano a baratto nelle strade di campagna sotto le siepi o le mura
dei fondi stessi in botteghe ambulanti improvvisate sopra carrette.
105. Nè sono i poveri o gli infermi, pei quali
sarebbero giustamente riserbati i residui, ma la gente più valida e la meno
bisognosa, allettata dal facile guadagno e dalla impunità, per cui ricusano di
lavorare alla vendemmia stessa, cui spesso mancano le braccia. E questa sfacciata
ruberia si fa in pien meriggio nelle pubbliche strade di campagna, sotto gli occhi
delle Autorità, che non trovano neppure una parola di biasimo. Quindi la
impunità aumenta ogni anno i corridori, e se i custodi o i guardiani o anche i
proprietari vogliono opporsi, spesso lor si risponde col coltello, sempre con
insolenze; sicchè dopo di aver lavorato un intero anno a coltivar la tua vigna
con gravi cure e spese e con molte trepidazioni pei venti, le tempeste, la
gragnuola, la siccità, tutti i malanni infine che minacciano la tua produzione,
dopo di aver pagato le ben dure imposte e multiformi, che opprimono la
proprietà asserendo di proteggerla, quando è l’ora di raccogliere il frutto, ti
è forza di conquistarlo col bastone e col fucile dalla voracità dei depredatori.
106. Questo spettacolo nauseante, che tutti gli
anni cade sotto i nostri occhi con progressione spaventevolmente crescente, è
veramente desolante per la pubblica morale, perchè mostra una società corrotta
e le Autorità indifferenti sì che le diresti partecipanti, desolantissimo e
scoraggiante per la proprietà che è lasciata senza difesa in balia del primo
occupante.
107. Quindi un affaccendarsi ed un’affrettarsi
dei proprietari a metter quanto prima in salvo le uve nei palmenti onde
sottrarle alla rapacità; epperò tutto si fa a precipizio e perciò male
preoccupati da una sola idea, sicché il vino anche per questo non può risultare
di buona qualità, perchè i viticoltori o i loro proposti, intenti unicamente a
salvare il prodotto, non si occupano quanto dovrebbero delle molteplici cure
che esige la vinificazione, e non possono occuparsene,
108. Ognuno che non possiede vigne si crede in
dritto di procacciarsi in tal modo la provvista di vino per la sua famiglia per
tutto 1’anno, nè questo è tutto perchè spesso si veggono nulla tenenti che
fanno delle vendite di 2 in 300 ettolitri di mosto fatto Dio sa come; mentre il
povero agricoltore, che in tutto l’anno ha zappato, curato e custodito questa
vigna mediante la semplice retribuzione di una magra giornata, si vede
costretto a bere appena
per quattro o cinque mesi una miserabile ed amara acquatina, e non
sempre.
109. È naturale perciò che nel suo grosso e retto buon senso faccia
questo concetto. A che mi serve 1’essere onesto nel custodir fedelmente la
proprietà del padrone che mi paga magramente, se degli estranei lo rubano
impunemente e di tanto in una settimana per quanto basterebbe a me ed alla mia
famiglia per vivere l’intero anno lautamente senza sudare ed affaticarmi?
Ebbene, rubiamo anche noi la nostra parte, se le leggi son mute, se le Autorità
non guardano, è segno che questo è il destino del proprietario.
110. Da tutto questo deriva grande demoralizzazione generale,
vedendosi spesso i coloni, i custodi, i vendemmiatori conniventi coi depredatori,
gravi e pericolose perturbazioni dell’ordine pubblico per le risse frequenti
continue fra guardiani e ladri, e fra questi e i loro compagni che si rubano a
vicenda, e poi fra essi e i camorristi che, ricevuta l’uva, nè pagano il
prezzo promesso e convenuto anticipatamente, nè in proporzione della quantità
perchè hanno delle bilance viziose. Scoraggiamento e disamore nei viticoltori,
immoralità nei coloni, che invece di custodir le uve spesso sono i primi a
rubarle o tengon mano ai furti, cattiva riuscita della produzione, perchè
fatta in fretta e furia, pessima poi quella dei ricattatori perché di uve
strapazzate raccogliticce contrastate, che entrano in fermentazione a riprese
e senza comodi; e tutto questo si risolve in definitiva anche in discredito dei
nostri vini, i quali, una volta imbarcati, perdono la fede di battesimo, e van
tutti sotto la denominazione di vini di Milazzo.
111. Ho voluto fermarmi a disegno sopra questo articolo, e spesso
ripetere le stesse cose, perché bisogna radicalmente ed energicamente
provvedere senza dilazione se vogliamo spingere la produzione vinifera.
Convengo che, come nella messe, così nella vendemmia, lo spigolare deve
riguardarsi come un dritto del povero dell’infermo, ecc., ma non posso capire
che le Autorità lascino l’agricoltura senza difesa ed inerme a fronte di una
vera spogliazione, di un saccheggio nelle forme, il quale strappa al povero
stesso la risorsa dello spigolare! È anche cosa inumana ed indegna che questo
soffra la schiacciante concorrenza di una popolazione giovane e vigorosa che
potrebbe con profitto lavorare onestamente, e che invece fa difetto alle
vendemmie, tanto che dobbiamo valerci di lavoratori e vendemmiatrici dei paesi
vicini. Questa prospettiva è desolante per la nostra viticoltura, tanto più
che ogni anno andiamo di male in peggio!
112. Credo pessima pratica la nostra di lasciare i graspi nei
palmenti durante la pesta e la bollitura, e molto più il sottometterli insiem
con la pasta al torchio, molto più pei nostri vini naturalmente duri ed
alcoolici. Qualcuno sostiene il contrario, credendo che dai graspi il vino
tragga il tarmino, mentre sono i grilletti e non i graspi che lo comunicano, e
che conferiscono notevolmente alla conservazione e buona qualità dei vini.
Quindi ad ingentilire ed a rendere meno aspri i nostri, se fosse possibile, io
vorrei tolti tutti i graspi adottando l’uso dei sgrappolatoi, specialmente pei
vini delicati e fini, e pei comuni quanto più è possibile di toglierne durante
la pesta. I graspi non danno che l’aspro, replico, il torboso, il razzente, ai
vini, da taluni gusti fuorviati, oggi ricercati, e forse ammissibili nei vini
deboli e scipiti per farli tollerare; ma per certo da sfuggirsi nei nostri
sapidissimi e robusti, destinati a lunga durata.
113. La breve descrizione del processo di vinificazione usato nel
nostro territorio mostra che nei palmenti e nelle tine, situati sempre al
coperto, l’uva e poi il mosto con la pasta non resta completamente esposto all’aria
libera che 48 ore al massimo, prima del qual termine passa il mosto e la
torchiatura nelle botti. Spesso l’operazione si compie in 24 ore, ed anche in
minor tempo talvolta. Questo metodo parmi giudizioso perchè conferisce allo
sviluppo degli eteri in gran numero ed al perfezionamento di tutti i principii
richiesti perchè il mosto sia completo,
lo che non sempre si ottiene o molto imperfettamente quando il mosto si fa
lungamente bollire nelle tine. Nelle poche ore che il mosto nei nostri palmenti
sta a bollire con la pasta, per cui a contatto con la corteccia degli acini, ne
estrae la parte colorante, e quel che vi resta è estratto poi dal torchio, e,
tenuto conto di tutte le circostanze che accompagnano la nostra vinificazione,
cioè grosse botti, ampi locali, caldo africano, ecc., parmi che il nostro
metodo, che si approssima molto a quello seguito nella Borgogna, sia abbastanza
razionale da non poterlo dir difettoso, e specialmente adattato alla specie del
vitigno da noi coltivato, ed ai vini veramente mercantili che vogliamo
produrre. Diffatti essi riescono sempre nerissimi, forse anche troppo neri,
senza neppure, come suol farsi e raccomandarsi con poca grazia da taluno, lo
impiego del gesso, ed eminentemente robusti; e pria che fosse apparsa la
crittogama, tuttochè allora come ora malissimo tenuti e conservati con
trascuraggine, pure raramente accadeva che si guastassero, e traversavano gli
anni ed invecchiavano perfezionandosi sempre. E qui giova notare che i vini di
Milazzo non si rendono mai caduchi per soverchia vecchiezza, ma invece
acquistano sempre.
114. Fra i maggiori difetti che i conoscitori appongono ai vini
italiani è la soverchia densità e la facile acescenza, per cui sono respinti
dal grande commercio e dalle nobili mense. Questo rimarchevole difetto dei
vini dell’alta e media Italia, parmi si debba ascrivere precipuamente a due
cause, la loro natural deficienza d’alcool, e le lunghe fermentazioni che si
lasciano compiere ai mosti in contatto con le pellicole ed i graspi, ed
all’aria libera.
Nelle prime ore si scioglie ben vero
la parte colorante dalla pellicola, cioè l’enolina, ma a lungo andare
vien distrutta, e ne risulta un colore cupo che non è più l’enolina, ma la
parte estrattiva delle pellicole e dei graspi, la quale, estranea al liquido,
deposita sempre, ed è causa, congiuntamente col lungo contatto dell’aria
atmosferica, dell’acidificazione del vino.
115. Tutto questo da noi non accade perché lasciamo far la vera ed
utile fermentazione ai mosti nelle botti senza cortecce e senza graspi; la
quale non è più a contatto dell’aria libera tuttochè il cocchiume delle botti
si lasci aperto, imperocchè il gas acido carbonico, che si sviluppa profusamente e che si espelle dallo
stesso cocchiume, essendo più pesante dell’aria, impedisce a questa di
penetrare nelle botti. È siffattamente operando che si ottiene quel bel colore
rosso che è tanto apprezzato e ricercato in commercio. Così si ottengono i vini
nobili, che i francesi, forse troppo pomposamente, ma a buon dritto chiamano grands
vins, quei vini soavi, morbidi, pastosi, direi anche francesemente vellutati
e pieni di aroma.
116. In Milazzo si fanno da taluno di questi vini nobili col metodo
detto pesta e imbotta, vale a dire che si pesta l’uva facendo scorrere
il mosto nella tina, e, senza rivoltarlo nel palmento, si passa immediatamente
nelle botti, nelle quali si ripartisce pro rata la prima leggiera torchiatura,
che si ricava quasi contemporaneamente; talchè cominciando a vendemmiare tosto
levato il sole, in sette o otto ore, e talvolta anche meno, una palmentata di
24 a 30 botti (115 a 150 ettolitri) è imbottata e comincia subito a fermentare.
Vediamo in questa operazione che il contatto del mosto con le cortecce solo
durante le poche ore della pesta, basta a dare al vino quel colore mirabile.
117. Il nostro dotto Palmieri
non solo ha condannato ma stigmatizzato l’uso generale in Sicilia dei palmenti
e delle tine di fabbrica. Con tutta la deferenza ed il rispetto che mi impone
l’opinione di quell’insigne siciliano, debbo osservare che, se non avessero in
loro favore la veneranda consacrazione dei secoli, durante i quali in Sicilia
ed in Milazzo si sono prodotti dei vini famosi, sempre in quei palmenti ed in
quelle tine, quantunque poi mal tenuti e peggio curati, questa sola considerazione
sarebbe già un argomento per non farsi rigettare a priori, e sol perché antichi
e diversi dalle Cuves usate in Francia ed in Germania. E comunque si
.voglia da taluno ritenere sia questo argomento
che prova troppo, quasi volesse dire: «non basta che siasi finora
fatto bene quando si potrebbe far meglio» prima di consigliare alla grande
massa dei viticoltori siciliani di abbandonare queste utilissime fabbriche,
sagrificando dei milioni che costarono, e sprecandone molti più necessari per
rimpiazzarli con tini di legno, esaminiamo se sono poi veri e reali i difetti
che molti coll’illustre Palmieri rimproverano a queste costruzioni.
118. Principalmente si condannano perché:
a) Assorbiscono in maggior copia non solo i principii, ma anche parte del
mosto.
b) Presentano l’aspetto di una stomachevole latrina (testuale),
per cui comunicano al vino le loro sporcizie e i cattivi odori.
c) La spesa della loro costruzione è maggiore di quella dei tini di legno, e
le riparazioni di questi durante la fermentazione assai più facili ed
economiche, e minore per conseguenza la possibile perdita di mosto.
d) Sono meno sensibili alle alterazioni atmosferiche, per cui non si può
dirigere la fermentazione del mosto come si vuole regolando ed aumentando ove
occorre la temperatura della tinaja.
e) La calce ha somma affinità coll’acido carbonico, per cui i palmenti ne
assorbono gran copia, e con esso del principio colorante e di lievito, che
nell’anno seguente sono sciolti nel nuovo mosto, e perciò ne resta alterato il
sapore, il colore, e la qualità, per cui i prodotti dello stesso vigneto
variano nei diversi anni di colore e di qualità.
119. In verità se questi ed altri minori addebiti non fossero
stati proferiti da un uomo sommo come il Palmieri non mi crederei in dovere di
rivelarli e confutarli, perché non sembrano nè seri nè logici.
E perché i palmenti, il cui
intonaco interno è veramente pietrificato, dovrebbero assorbire più che nol
facciano le doghe di legno, materia sommamente più porosa ed assorbente, ed
eminentemente alterabile per la vicenda della presenza di pochi giorni del
mosto e per la sua assenza per un anno intero? Perché rimproverare ai palmenti
la sporcizia ed il fetore che son colpa nostra? E perché ritenerne a priori
immuni i tini di legno quando li trascuriamo egualmente? Certo che bisogna
mantenere accuratamente sempre tutte le fabbriche e gli utensili inservienti
alla vinificazione, e pulirli bene poi e lavarli più volte a grandi acque prima
della vendemmia. Se nol facciamo è colpa nostra non difetto dei palmenti; ma
fatta bene questa indispensabile pulizia, riesce assai meglio e più completa
nei palmenti di fabbrica che nei tini di legno, nei quali 1’acqua sempre nuoce
qualunque precauzione si prenda, e spesso genera muffa che si comunica al
mosto.
120. Nel nostro clima e coi calori del nostro mese di settembre in
cui bruciano anche le pietre, non riconosciamo mai in Milazzo il bisogno di
promuovere o attivare artificialmente la fermentazione con aumento di
temperatura, per cui la minor sensibilità dei palmenti, se vera, ridonderebbe
piuttosto in favore della fermentazione che procederebbe con più uniformità ed
equabilità. E così avviene diffatti perché i fenomeni della prima ebullizione
sono potentemente modificati dalla differenza dei volumi, ed incontestabilmente
1’attività di essa è sempre proporzionata alla massa; per cui come i tini di
grandi dimensioni hanno questo vantaggio sui piccoli, così i palmenti,
incomparabilmente più vasti dei tini, sono preferibili ad essi per questo
rispetto, essendochè l’ebollizione vi si sviluppa con maggiore energia, le
variazioni atmosferiche vi sono meno sensibili, ed il mosto ne esce di maggior
colore e corpo, e quel che più monta di unica qualità.
121. La grande affinità della calce pel gas acido carbonico che si
sviluppa abbondantemente nella ebollizione del mosto anziché un difetto
dovrebbe reputarsi una preziosa qualità dei palmenti, perocchè non v’ha chi
ignori quanto i carbonati di calce che ne risultano sieno utili a prevenire
l’acescenza ed a correggerla se si affacciasse.
122. Mi resta ad esaminare la questione di economia, questione
capitale tanto in agricoltura quanto nelle industrie, e semprechè si
tratti di produr bene e a buon mercato.
Si dice:
1° Costano più i palmenti che i
tini di legno.
2° Costano più le riparazioni dei primi che quelle dei
secondi.
3° Sono assai più facili a costruirsi i tini di legno che non i
palmenti in fabbrica.
4° Sono minori le perdite di mosto nei primi che nei secondi.
123. 1.° In tutto il territorio di Milazzo si costruiscono per
appalto degli ottimi palmenti in muratura al prezzo massimo di £. 7 la botte di
6 salme, per cui un palmento di 30 botti, ossia 180 salme (ettolitri 144), non
costa che £. 210, compresa la fida, cioè l’obligazione del costruttore di
indennizzarvi se avrete perdita di mosto per lesioni o spaccature di fabbriche
o di intonachi, e di ripararle a sue spese. Credo che sarebbe impossibile da
noi di costruire un tino di doghe di rovere o di castagno di quella capienza, e
se si potesse, certamente la spesa sormonterebbe le £. 1.300.
Non dimostro questo che asserisco
perchè i nostri proprietari vinicoli, avvezzi a comprare grosse botti,
troveranno che è molto al disotto della realtà; ed aggiungeranno che
avrebbero bisogno, per collocare questo immenso tino, di magazzini enormemente
alti. Or che diremo se per una mediocremente vasta proprietà si dovesser
costruire quattro di questi tini mostruosi, anziché edificar quattro palmenti?
Mi si dirà che i tini non si fanno sì grandi, solendo per l’ordinario aver la
capacità di 10 a 15 ettolitri. Ebbene, in questo caso per un palmento avete
bisogno di dieci di questi tini, e quaranta per quattro palmenti, e vi
occorreranno dei locali se non più alti certo enormemente più vasti, lo
che pure ingigantisce le spese di impianto e di manutenzione.
124. 2° Niuna o pochissime e rare riparazioni esigono i nostri
palmenti e di lievissima spesa, essendone i costruttori così abili ed
accorti ed abituati, che contraggono una responsabilità positiva. Ne
abbiamo dei secolari e talvolta nel demolirli vediamo staccarne gli intonachi
a grandi lastre ben compatte, e per la fabbrica bisogna adoprare i cunei
di ferro e le grosse mazze, e non di raro anche la polvere. Per quanto
leggiera voglia supporsi la manutenzione dei tini di legno, riducendola anche
a 25 centesimi per ettolitro e per anno, diviene importantissima quando si ha
una tinaja di 600 ettolitri, che corrispondono a quattro dei nostri palmenti.
125. 3° e 4° Scompariscono queste assertive per quel che vengo di
esporre. Se non che realmente si avrebbe una forte perdita di mosto, ove una
lesione accadesse nel palmento durante la vendemmia, che certamente non si
potrebbe riparare sul momento con la stessa facilità che nei tini di legno.
Però siccome ciò avviene assai di raro, attesa la perizia dei nostri artefici e
la loro responsabilità, e solamente potrebbe verificarsi per effetto di un
tremuoto giusto nei giorni della vendemmia unico caso che scioglierebbe la
responsabilità dell’artefice; e siccome si può facilmente vuotare un palmento
in pochi minuti e metter le uve in un altro, in simili casi assai eccezionali,
così non è da darvi molta importanza.
126. Il giudizio che dà il Lenoir dei palmenti di muratura ed il
peso della di lui autorità mi avrebbero potuto dispensare da questa digressione.
Ma il desiderio di aggiungere nuove considerazioni tratte dalla mia propria
esperienza, in un momento in cui lo studio della enologia nei libri francesi ci
fa propendere anche troppo forte per usi e pratiche che non son tutti e sempre
fatti per noi, mi vi ha determinato; persuaso come sono che la coltivazione
della vite, la vinificazione e la enologia hanno bensì dei principii generali,
delle teorie, delle esperienze, che però vanno sempre piegate in rapporto coi
nostri vitigni, coi nostri terreni, col nostro clima e con le condizioni
nostre.
127. Di molte pratiche che in altre regioni sono condizioni
essenziali di riuscita il nostro clima ci dispensa, e per non annojare con una
lunga enumerazione ne accennerò
una sola che varrà a giustificare il mio pensiero. In Francia ed in molte
regioni vinifere della Germania ed anche dell’Italia si crede necessario di
far fermentare la vendemmia, cioè mosto, acini e graspi, nei tini in contatto
coll’aria atmosferica per settimane, ed anche talora per un mese e più, mentre
che da noi bastano poche ore.
128. Del resto dobbiam convenire che facilmente si arriva alla
esagerazione tanto dai propugnatori quanto dai detrattori dei palmenti di
muratura, nè io voglio tenere ai primi in modo assoluto ed esclusivo. Ho voluto
provare solamente che per promuovere la buona vinificazione in Sicilia, ed in
ispecie in Milazzo non bisogna cominciare dallo scoraggiar quelli che vogliamo
convertire, consigliando loro con poca riflessione di abbandonare i palmenti di
fabbrica, già fatti e riusciti, pei tini di legno faciendi con gravi spese,
come condizione sine qua non, giacchè si possono fare e si fanno ottimi
vini cogli uni e cogli altri; e che se in Francia ed in Germania il basso
prezzo delle doghe di ferro fa preferire i tini di legno, non siamo in errore
noi che in Sicilia adoperiamo ancora i
palmenti di muratura che han dato sempre ai nostri padri e danno
anche a noi ottimi resultati.
129. Sventuratamente non posso dir dei nostri torchi tutto il bene che
ho detto dei palmenti, imperocchè sono difettosi, di grave spesa per la costruzione,
istallazione e manutenzione, di un lavoro lungo, faticoso ed incompleto con
spesa non lieve, poco capaci di nettezza, infine contribuiscono anche essi non
poco alla cattiva vinificazione.
130. I migliori sono il torchio cosi detto alla trappetara e quello volgarmente chiamato alla
genovese. Degli altri non vale il
conto di occuparsene, vere macchine primitive e adamitiche. L’uno e l’altro
sono costruiti interamente di legname con soli perni e fasciature di ferro: anche le viti e madreviti sono
di legno e fatte a mano! gravi, pesanti, instabili, qualcheduno col banco
inferiore di un grosso blocco di pietra forte. Il primo stringe mediante due
viti che agiscono alternatamente, epperò con movimento e sforzi ineguali ed a
scosse. Il secondo con una sola vite centrale per cui con moto e sforzi più
uniformi e più utili, ma pure a scosse. Entrambi costano per costruzione ed istallazione
da L. 600 a mille per uno secondo i casi, e stringono la pasta entro sportine a
dieci per volta soprapposte 1’una all’altra in pila sul banco del torchio, con
l’opera nojosa ed affannosa di cinque o sei uomini; i quali ad ogni stretta
impiegano circa due ore per empir le sportine, formar la pila, pressarla, scaricarla
e vuotar le sportine. Quindi non possono fare che quattro o cinque strette, dette consiate,
in una giornata di lavoro, perciò la mano d’opera per ogni stretta costa
L. 2. 50 oltre il consumo delle sporte.
131. Comunque succinta e magra questa descrizione basterà per farli
ravvisare ai nostri viticoltori, e per chi non li conosce non ha interesse a
saperne di più. Oltre ai cennati difetti son da notare i seguenti in quanto
sono pregiudizievoli alla buona vinificazione ed alla economia.
a) Tardità di lavoro che costa molto, e che lascia lungo
tempo la pasta nel palmento esposta all’aria libera in pericolo di inacidirsi,
e con disperdimento di mosto per la evaporazione.
b) Consumo di sportine, ed
assorbimento non lieve di mosto che queste producono per la continua vicenda del
bagnarsi ed asciugarsi.
c) Grande deteriorazione nella
qualità del torchiato, che la trasfonde al vino, resultante dalle sportine, le
quali per un intero anno restano inoperose, depositate nei magazzini, ove si
impolverano, inaridiscono, muffiscono prendono il secco, porcherie e cattivi
gusti e odori dei quali non possono mai spogliarsi, nonostante le più diligenti
lavature cui si sottopongono pria di riadoperarle, sono altrettanti cattivi
germi che comunicano al torchiato e questo al mosto cui si unisce. Io credo che
molti difetti sarebbero evitati nei nostri vini se potessero elimiinarsi le
sportine, le quali lasciano bensì fluire sotto la pressione il mosto contenuto
nella pasta che è alla loro periferia, ma con gran difficoltà quello del centro,
il quale non sgorga che alla base, e perciò attraversando lentamente e con stento
tutta la colonna delle dieci sportine, per cui si imbeve nella lunga e
difficile percorrenza di tutta 1’asprezza ed il sorboso contenuto nella pasta,
attraverso la quale è obbligato a filtrare; e coi cattivi succhi porta seco
tutte le materie estrattive, elementi tutti pregiudizievoli alla buona riuscita
del vino.
132. Nella mira di evitare queste ree influenze ho voluto provare
nella passata vendemmia altre macchine, e mi sono provveduto di due nuovi
Torchi , uno sistema Dezaunay di Nantes, l’altro del prof. Graziano Tubi di
Lecco. Entrambi queste macchine mi hanno pienamente soddisfatto sotto i
rapporti della semplicità, della economia, della solidità, del poco spazio che
occupano, della mobilità, potendosi agevolmente trasportare e servirsene in diverse
località, infine della facilità ed economia grande di spesa e di tempo nel
lavoro. Ciascuno di essi non esige che tre uomini per servirlo, ed ogni torchiata
si compie in 40 minuti
circa nell’uno e nell’altro. Entrambe hanno eliminato l’inconveniente
gravissimo delle sportine.
133. Adoperati comparativamente ai miei antichi torchi, mi hanno
determinato dopo la prima stretta ad abbandonare totalmente e per sempre l’uso
di questi.
134. Il torchio Dezaunay presenta in verità maggior solidità e
stabilità dell’altro e stringe nella sua gabbia una quantità di pasta pressochè
doppia dei nostri antichi torchi; però per esser maneggiato esige uno spazio
quattro volte maggiore di quello del prof. Tubi.
135. Il torchio Tubi
stringe metà più di pasta dei nostri vecchi torchi, e presenta poi il pregio
grandissimo ed inestimabile di avere evitato la lunga percorrenza del mosto
centrale attraverso alle vinacce mercè la felice idea di un tubo centrale che
attraversa tutta la colonna della pasta, dall’autore chiarissimo denominato scaricatore, pel quale il mosto dal
centro scola contemporaneamente e forse più sollecito di quello dei lati,
sicchè la massima percorrenza a traverso le vinacce non è che di 10 centimetri.
136. Dopo sì bella e soddisfacente esperienza io non posso
astenermi dal consigliarne 1’uso a tutti i viticoltori, e, richiesto,
suggerirei di preferire il torchio Dezaunay nella fabbricazione dei vini
comuni, ed il torchio Tubi nella fabbricazione dei vini nobili e fini «che
ogni fiato appanna».
137. Questo parmi il luogo di notare come difetto essenziale dei
nostri metodi la grande smania di stringer soverchiamente le vinacce in modo da
cavarle dal torchio assolutamente aride, mentre è 1a prima metà del torchiato che conferisce a dar corpo
e vigore al vino; non così la seconda metà che, contenendo gli ultimi sughi
meno spontanei ed i più lenti a fluire non dovrebbe esser mischiato al mosto
per non comunicargli, l’aspro, il torboso e le soverchie materie estrattive, ma
mettersi da parte per un vino secondario, o pure non estrarsi per poi cavar
dalla pasta il vinello, lo che accoppierebbe il vantaggio di affrettare e
rendere più economiche le operazioni della torchiatura.
138. Altro difetto è il non riempir le botti di mosto, e di
lasciare un decimetro di vuoto fra esso ed il cocchiume. Bisogna invece
riempirle tanto per quanto nella fermentazione tumultuosa le materie estranee
potessero esser sospinte fuori fra le schiume, lo che contribuisce a sbarazzare
il vino da una gran quantità di materie che, non andando mai a fondo per la
loro leggerezza, rendono il vino sempre appannato se non torbido e possono comprometterne
la sorte. Anzi si deve supplire due volte al giorno il poco che cade, nè
rimpianger questo piccolo poco che salva il resto, con altro mosto tenuto
espressamente a parte per queste colmature, per tutta la prima settimana. Alla
seconda basta colmare una volta al giorno. Per un mese poi successivo far le
colmature due volte per settimana. E questa prescrizione, molto utile pei vini
rossi comuni, è assolutamente di rigore per tutti i vini fini, e indispensabile
specialmente poi pei vini bianchi soprabbondanti di sostanze albuminose e glutinose.
139. Alle già accennate cause di discredito dei vini mercantili di
Milazzo, che si impiegano principalmente per colorire e rinforzare i vini
scoloriti e deboli delle Provincie settentrionali, bisogna aggiungere la mala
fede degli speculatori i quali, abusando del color nero e della robustezza dei
nostri vini, li allungano con acqua di mare nei Porti ove li mettono in
vendita, nel consegnarli, avendoli prima fatti assaggiare genuini. Questo vergognoso
inganno, che ha arricchito molti, è ridondato in danno della reputazione dei nostri
vini. Ad ovviare questo inconveniente è da consigliarne il ritiro in piccoli
fusti maneggevoli garantiti di controfodera.
140. Laddove però arrivano sinceri generalmente sono trovati troppo
forti, troppo potenti per sostenerli come vini da pasto per uso quotidiano. Ciò
è tanto vero che noi stessi, comunque abituati, non li beviamo che più o meno
allungati con acqua a tavola. Questo però non è realmente un difetto ma
piuttosto un eccesso naturale di merito che pur giova mantenere per renderli
atti alla concia, essendo questa la vera e reale loro destinazione.
141. Certamente sarebbe utile se potessimo ottener dei vini da
pasto leggieri, grati, di facile digestione e nel tempo stesso duraturi ed atti
alle lunghe navigazioni. Ma per qual via raggiungere questo scopo? Probabilmente
si arriverebbe introducendo altre specie di vitigni più delicati e più
fruttiferi, onde la poderosità, l’energia, che proviene dai nostri terreni e
dal clima, disseminata in maggior copia d’uve, possa scemare i gradi di alcoolicità
senza indebolire gli altri pregi del vino.
142. Forse si potrebbe riuscire, quantunque io ne dubito
fortemente perchè i vini meridionali han tutti un tipo proprio assai differente
dai vini settentrionali, tipo ingenerato non tanto dall’indole del vitigno,
quanto dalla natura del suolo e del clima, che quasi sempre modifica quella;
per cui forse non riuscirebbe la prova, che pur tuttavia converrebbe tentare,
sebbene con poca speranza per induzione del seguente fenomeno costante. La
nostra Nocera in
taluni terreni molto ubertosi bassi e acquosi arriva a dare, quando è giovane,
fino a cinque botti, 30 salme, 24 ettolitri di vino per ogni migliajo di viti,
mentre che in altri siti pietrosi o arenosi nella stessa annata non vi dà che
da 3 a 4 ettolitri, questi ultimi sotto tutti i rapporti di robustezza, colore,
aroma, soavità, merito infine, sono molto superiori ai primi 24; ma pur sempre
presentano questi un vino molto robusto, sebben di poco merito, ed imbevibile
da solo. Quindi non parmi che si potrebbe risolvere il problema con la maggior
copia della produzione. Nondimeno, replico, un tentativo in questo senso non
nuocerebbe certo, e potrebbe anche giovare lo allevare le nostre viti molto più
alte raccomandandole, non ad alberi come nel Napoletano, ma a pali, nello
intento di farla fruttificar davantaggio. Forse mi ingannerò, ma dubito molto
che, se pure si riuscirà agendo siffattamente, sempre il risultato si otterrà
a spese della qualità.
Nè riuscendo sarebbe sperabile di
cangiare i nostri vitigni se non fra due o tre generazioni, poichè niuno dei
viticoltori, anche dopo buona prova, consentirebbe al sacrifizio di svellere le
sue vigne e perderne la produzione per diversi anni, sobbarcandosi alla spesa
non lieve del baliaggio nel frattempo, anche con la lontana prospettiva di
veder raddoppiata ha sua produzione.
143. Più d’uno, fondatosi sul principio teorico che si possano, per
modificar l’indole dei mosti, aggiungere o togliere nella fermentazione talune
sostanze che vi si trovino in difetto o in eccesso, han proposto, per
diminuire l’alcoolicità dei vini meridionali, l’aggiunzione dell’acqua,
stimando che questa fosse in difetto nella composizione dei nostri mosti, e lo
zucchero in eccesso, donde la soverchia alcoolicità. In quanto a me dubito forte
che praticamente si colga il segno che la teoria consiglia, ed argomento sulla
propria esperienza.
Nella vendemmia del 1865 avendo
tirato dell’eccellente vinello dalle vinacce di una mia vigna bianca che mi dà
un vino stupendo, pensai, non per tentare questa prova, ma unicamente per la
ottima riuscita del vinello, pensai di accoppiarlo con una botte dello stesso
mosto bianco che non arrivò a riempirsi e si completò col vinello. Questa botte
fermentò e fu trattata come le altre. Divenuta vino, fu di qualità assai
inferiore alle altre, e fino al terzo anno quel vino aveva del crudo, un gusto
indefinibile per tutti coloro che lo assaggiavano e che non erano a parte del
mio esperimento. La sua alcoolicità frattanto non era inferiore alle altre,
tuttochè l’acqua introdottavi fosse stata il ventesimo della massa, e dopo tre
anni presentava una qualità molto secondaria in gusto ed aroma dalle altre
botti. Da quell’epoca non volli replicar la prova, convinto che l’acqua è un
cattivo mobile pel vino.
Ammetterei bensì come correttivo
l’uso dell’acqua per moderare i nostri vini nello beverli, in dose maggiore o
minore secondo i gusti, parlo sempre pei vini da pasto, ed accoppiata lì per lì
nel momento della consumazione, mai prima.
144. Concludo quindi, tutto calcolato, ed anche pel riguardo che
non conviene violentar la natura per domandarle quel che non può darci, che il
miglior consiglio sarebbe che i viticoltori di Milazzo si applicassero più
specialmente a produrre come han finora prodotto dei vini mercantili da concia,
ma veramente buoni e pregevoli, applicandovi i sani precetti enologici, i
quali vini così fabbricati e curati dall’arte sarebbero assai più ricercati dal
commercio e pagati più cari.
145. È indispensabile però, che si introduca come pratica integrante
della tenuta dei vini, ed assolutamente necessaria quanto lo è la tramuta, la
chiarificazione per tutti i vini
specialmente poi per quelli, vecchi o giovani, che si destinano alle lunghe
navigazioni o ai viaggi per terra; e ciò non perché i nostri vini non chiariscano da sè naturalmente, ma per
spogliarli e nettarli completamente e presto di tutte quelle sostanze estranee
e leggiere che sotto forma di nubi ne appannano più o meno la limpidezza e ne
compromettono ad ogni momento la esistenza.
146. Utile pure riuscirebbe il promuovere e generalizzare la
giudiziosa fabbricazione del vinello pel basso consumo interno, non dell’Acquatina che oggi fanno pel loro uso
esclusivo i nostri coloni. Questa nuova industria mentre getterebbe nella
consumazione delle bevande secondarie e nondimeno sane e ristoranti a buon
mercato, utili per una grande massa delle nostre popolazioni, aprirebbe ai
viticoltori che ne hanno gran bisogno una nuova risorsa ed un incoraggimento.
147. Questa industria dei vini secondari concorrerebbe anche
direttamente a migliorar quella dei vini, imperocchè cesserebbe la smania di
stringer soverchiamente la pasta sotto i torchi per cavarne l’ultima goccia di
mosto (137). Quel che rimane dopo una moderata pressura non andrebbe perduto.
TENUTA E
CONSERVAZIONE DEI VINI.
148. Qualche parola ancora su questa ultima parte che, dopo una
buona vinificazione, è il complemento necessario per dare un migliore indirizzo
alla enologia milazzese; periodo, che come dissi, è il più trascurato dai nostri
viticoltori mentre richiederebbe, se si volesse esser logici, la nostra
maggiore attenzione e scrupolosità, imperocchè non v’ha vino anche secondario e
scadente che non migliori di molto per la cura intelligente e per la buona
tenuta, o almeno non deteriori; mentre per converso i migliori vini spesso
volgono a male, o non migliorano quanto potrebbero allorchè sono trascurati.
149. Finita la vinificazione, se il mosto non si vende subito, si
abbandona e quasi vien dimenticato nei magazzini di campagna, con i cocchiumi
delle botti aperti, o tutto al più ricoperti da una semplice foglia o da un
pezzo di straccio sudicio e polveroso mantenuto da una pietra o un pezzo di
mattone (55). A capo di un mese circa (56) si otturano le botti e si lutano, e
da mezzo gennaio in poi sino a tutto marzo il vino si tramuta.
150. Credo di non andare errato nell’incolpare questa condotta di
soverchia trascuraggine, proveniente in parte dalla ignoranza, perché neppur si
suppone esser questo il periodo più critico pei vini, ed in parte dallo abuso
che facciamo delle proprietà che la natura largamente impartisce ai nostri
vini, quali non pertanto si mantengono sani ed anche pregievoli. Evidentemente
però diverrebbero migliori se si praticassero incessantemente le colmature
durante la fermentazione, e sopratutto se si desse ai vini una prima tramuta
verso la fine di novembre, senza preterire l’altra che suolsi fare da gennaio
a marzo.
151. In queste tramute dovrebbesi non solo sciacquare le botti,
come si fa, ma anche scatenarle, cioè sciacquarle con lo stesso vino
introducendovi una grossa catena di ferro legata per un dei capi esternamente
alla botte con una corda che le permetta di riposar tutta nel fondo e seguirne
le agitazioni, onde togliere dalle pareti tutta la feccia che vi resta
attaccata, e ripetere questa operazione più volte finchè il vino delle
sciacquature ne esca chiaro. Allora siete sicuri che la vostra botte è netta, e
ciò non basta, ma bisogna solforarla prima di riempirla.
152. La solforazione delle botti pria di riporre il vino in ogni
occasione è di rigore. Però non bisogna eccedere perocchè il soverchio acido
solforoso potrebbe annientare le ulteriori fermentazioni lente che pur deve
subire il vino per compiere la sua maturità, nè bisogna spegnerle o soffocarle.
Come l’eccesso è da evitarsi anche il difetto, stantechè una solforazione
insufficiente mancherebbe il suo scopo. Nè in questo si possono indicar
precetti. La pratica, l’abitudine di maneggiare i vini e la conoscenza
dell’indole di essi serviranno di norma. Così va solforato più energicamente un
vino ricco di principii albuminoidi, e più lievemente gli alcoolici. Somma
diligenza esige la solforazione non solo in quanto alle dosi, ma e molto più
perchè le ceneri e le sgocciolature non cadano in fondo alle botti. Per tutti i
riguardi io raccomando il dissolforatore Tubi, nel quale la combustione del
minerale ha luogo esternamente alle botti, e che permette di regolarne a
volontà l’energia.
153. Allorchè si è infine di vuotar lo botti, quando il vino sgorga
debolmente dalla cannella, si suole sospendere dalla parte posteriore a mano
d’uomini, lo che è molto difficile se la botte è grande, e non avviene mai
senza scuotimenti che smuovono le fecce. Questo è un grave inconveniente, e per
quanto si abbia avvertenza l’ultimo vino esce sempre misto a fecce, le quali
passando alla superficie dell’altra botte, che contiene già il vino chiaro, lo
intorbidano nuovamente, e ne compromettono la esistenza perché nel discendere
per riunirsi nel fondo provocano delle fermentazioni assai pericolose.
154. Utilissimo per ovviare a questo inconveniente ho sperimentato
il Cric Beziat, specie di leva molto ingegnosa, la quale con un estremo
biforcato si appoggia alla botte, 1’altra estremità fornita di manico è tenuta
dal lavorante, se la botte è piccola, se è grande si appoggia al muro o ad una
pertica fissa dietro la botte. Nel centro ha un telajo quadrangolare portante
un cilindro mobile, intorno al quale si avvolge una solida correggia di cuojo terminata
con un uncino di ferro, che afferra la botte per le doghe posteriori. Il
piccolo cilindro è mosso da un manubrio e da un dolcissimo ingranaggio di
ferro. Allorchè si vuole adoprare, da un sol lavorante, senza sforzo e senza
scosse vien sollevata insensibilmente qualunque grossa botte con movimento si
dolce che quasi non si vede il suo inclinarsi, lo che permette di tirarne tutto
il liquido chiaro fino alla feccia. Da due anni io mi servo con molta utilità
di questo istrumento in tutte le tramute e travasamenti come nello imbottigliare,
e mi pregio raccomandarne l’uso a tutti i viticoltori ed industriali.
155. Finita la tramuta tutte le fecce col vino torbido e quello
delle sciacquature delle botti si fa filtrare per sacchi di tela forte sospesi
sopra barili appositi ad un sol fondo per separare le grosse fecce dal vino.
Dopo 24 ore nei sacchi resta la sola feccia, ed il vino è scolato nei barili.
Questo, che spesso suol riuscire anche eccellente ma dopo lungo tempo, da
taluni incauti si mischia con qualche botte di vino chiaro che nella tramuta
non poté riempirsi; e siccome
sa di tela e contiene ancora in sospensione molta feccia della più sottile che
la filtrazione non è arrivata a separare, spesso ne compromette la riuscita,
perché può ridestare la fermentazione e farla degenerare. Credo molto più
prudente riunir questo vino dei sacchi separatamente in una botte per
travasarlo una seconda volta dopo venti giorni ad un mese, periodo più che
sufficiente perché faccia il suo deposito. Quindi trattarlo come tutto il
resto. Nella tramuta le botti si colmano, e bisogna di tempo in tempo supplire
le disposizioni che avvengono per lo asciugamento delle botti, specialmente nel
primo e secondo anno, e quando si tiene a conservare il color nero al vino mercantile,
cioè a dire il vino da concia.
156. In febbrajo o marzo bisogna far la seconda tramuta con le
stesse diligenze, riempiendo le botti a tappo lavato, nè bisogna mai desistere
dalle colmature di tempo in tempo con lo stesso vino.
157. Dopo questa seconda tramuta è opportuna la chiarificazione
sia pei vini destinati ai lunghi viaggi per terra e per mare, sia per quelli
che vogliono piuttosto conservarsi per raffinarli e renderli meritevoli dell’onor
della bottiglia. La chiarificazione meccanica netta completamente i vini, li
ingentilisce, li rende brillanti e di color franco da appagar grandemente la
vista, li fa meno aspri e più digeribili, li spoglia di tutti gli elementi che
ritiene in sospensione, i quali mentre li deturpano e ne ritardano la maturità,
vi eccitano sempre dei movimenti compromettenti; insomma ne assicura il merito
e li fa belli, giacché anche il vino non basta che sia buono ma deve ancora
esser bello, e più presto ne sviluppa l’aroma.
158. Si lascia riposare da quindici a trenta giorni, e quindi si
tramuta una terza volta per separare il sedimento prodotto dalla chiara.
159. Fatta questa terza tramuta, non smettendo mai la solforazione
delle botti, si lascia il vino in completo riposo continuando le colmature due
volte al mese almeno. Alla fine di maggio quindi i vini mercantili possono
considerarsi come fatti, e capaci di esser messi in commercio con reputazione
dei venditori e profitto dei compratori, i quali senza tema o sospetto possono
farne tutti gli usi, cioè valersene per rilevare, sostenere e colorire i vini
deboli e scoloriti, oppur destinarli a lunghe navigazioni od ai trasporti per
terra senza bisogno di rinforzarli con alcool aggiunto (viner), perchè
già ne contengono 14 a 16 % e sono franchi di materie estranee.
160. Le tramute o travasamenti sogliono eseguirsi spillando le
botti dalle cannelle in piccoli recipienti di creta stagnata o barili, coi
quali si versa il vino nelle botti vuote, già solfurate, per mezzo di imbuti di
legno.
161. Molti credono questa una cattiva pratica sì perchè il liquido
resta esposto all’aria, sì perchè piomba con fracasso nelle grosse botti vuote;
per cui si sono studiati i modi, ed ogni dì sentiamo propugnare degli
apparecchi, onde compire i travasamenti fuori il contatto dell’aria e senza
squassamenti. Per la stessa ragione condannano i frequenti travasamenti che
replicano troppo spesso questo che reputano un grande inconveniente.
162. E forse lo sarà pei vini poco generosi e deboli di forza e di
colore, ma pei robusti vini di Milazzo, il cui colore è sì forte che lascia
macchie spesso indelebili sulle biancherie, io porto opinione ferma, derivante
da convinzione e da esperienza, che invece sia una pratica utilissima, perché
ritengo che i nostri vini abbiano bisogno per maturar presto di molta
aerazione, essendo 1’aria il principio e l’elemento vitale di ogni essere
vivente, ed il vino ne è uno. Le frequenti tramute e lo squassamento sono
infatti i metodi principali di cura e di perfezionamento dei nostri vini
perché procurano quella lenta ossidazione che conferisce a maturare il vino ed
a fargli sviluppar l’aroma. Infatti la fabbricazione dei celebri vini di
Marsala, di Madera, di Cipro, di Oporto, di Xeres, che tanti rapporti di
analogia hanno coi nostri di Milazzo è fondata sul metodo dei frequenti
travasamenti e dello squassamento finché non sieno fatti. È allora che per
mantenere in essi tutte le proprietà ed i pregi acquistati si cerca di
impedire gelosamente il contatto dell’aria. Aggiungerò che dall’aerazione si
ottiene l’altro utilissimo resultato della completa dissolforazione del vino
senza complicazioni e senza altre pratiche; imperocchè tutti sanno che il gas
acido solfidrico, ossia l’idrogeno solforato, ha la proprietà di disperdersi
nell’aria atmosferica, essendo di essa specificamente pìu leggiero.
163. L’aria atmosferica pei nostri vini è, fino ad un certo punto,
di una benefica influenza che forse finora non è stata generalmente apprezzata
nè abbastanza studiata. Convengo anch’io che 1’ossigeno dell’aria può avere ed
ha spesso funesta influenza sui vini, ma quando non si trasmoda, quando si
opera con intelligenza, e sopratutto quando si opera sopra buona stoffa di vini
come i nostri, ben vinificati e non a casaccio, ripeto, potersi trarre gran
partito da questo elemento vivificatore. E debbo qui confessare esser questo
uno dei creduti miei segreti nella manufatturazione dei miei vini, che io curo
e faccio invecchiare a via di travasamento per diversi anni e di squassamento
finché li reputo veramente maturi. Allora li lascio in perfetto riposo, ed a
misura del bisogno li metto in bottiglia.
164. Che se mi si addimandasse una dimostrazione, una ragione
scientifica dì questa mia ferma credenza, risponderei agli ignoranti con la
concludente loquela dei fatti, ai quali bisogna inchinarsi, e rimandando i
dotti ai belli lavori ed esperimenti fatti dai grandi maestri sull’argomento
da Gay-Lussac a Pasteur; ed aggiungerei che 1’aria, ossia l’ossigeno, pei vini
è come il fuoco per gli usi della vita. Guai a chi ne abusa, o ne usa incautamente!
I vini ne hanno assoluto bisogno per costituirsi, maturare, perfezionarsi,
arrivare infine alla loro completa virilità, periodo che non attingerebbero
forse mai senza di essa, o assai tardi pel tardo e lento lavorio del tempo, che
pur si sussidia dell’ossigeno, dell’aria che il vino assorbisce dai pori delle
botti.
165. Quindi siccome il medico non prescrive la stessa cura per la
malattia ad individui diversi per sesso, costituzione, educazione, ed in climi
e stagioni differenti, così non tutte le precauzioni necessarie, forse anche indispensabili
pei vini settentrionali, sono applicabili ai meridionali. Epperò senza tema di
ingannarli io consiglierei i miei conterranei di non dipartirsi in questo dalle
loro abitudini, e di non sprecar danaro in acquisto di macchine o apparecchi
per loro inutili per soverchia vaghezza di novità o di imitazione. Vorrei bensì
che usassero molta maggior diligenza nella pulizia e preparazione delle botti,
come la più gran nettezza negli utensili inservienti alla tramuta, come imbuti,
vasi, barili, ecc., che ogni volta debbono esser lavati replicatamente pria di
adoperarli.
166. Le botti per la conservazione dei vini sono un argomento di
una importanza capitale, al quale però dai nostri viticoltori punto o poco si
bada, mentre spesso esse contribuiscono a deteriorare ed anche a perdere i vini
meglio fabbricati e di merito veramente intrinseco, come per converso
conferiscono spesso a migliorare i vini scadenti. Quindi non si potrebbe
abbastanza raccomandare la cura di questi recipienti per tenerli sempre in
buono stato di solidità e nettezza sì interna che esterna
167. Per la nettezza esterna qualche volta si pensa assicurarla
meglio dipingendole con colori diversi ad olio di lino. Cattivo sistema in
quanto quella spalmatura ostruisce i pori del legno pei quali il vino, che ho
chiamato essere vivente, aspira e traspira e manifesta la sua vitalità pel
periodo del lavorio che deve condurlo alla virilità. Voi adunque difficoltate
queste funzioni necessarie, epperò il vino vivrà vita languida, e maturerà e
si perfezionerà più tardi.
168. Non mi occuperò di indicare il legno da preferirsi per questi
recipienti, perchè non si ha in tutti i luoghi libera la scelta. Pure presso di
noi, potendo, é sempre da preferirsi il cerro rosso, poi il bianco, in ultima
linea il castagno. Pei vini comuni mercantili, preferite sempre i grandi
recipienti, e pei vini preziosi e molto vecchi i piccoli.
169. Questi vitti solamente meritano l’onore della bottiglia; e
quando sono perfettamente maturi, limpidissimi e brillanti. Ho detto che non
basta il vino sia buono, ma bisogna pur che sia bello, e quello in bottiglia
deve essere bellissimo tanto internamente quanto esternamente. Epperò dovete
diffidare delle bottiglie troppo nere che non vi permettono di apprezzare la
limpidezza del vino a traverso del vetro. Nè basta il guardar la bottiglia
dritta, ma dovete rivoltarla col collo sotto ed il fondo in aria. Allorché
nulla nuota nella bottiglia così rivoltata, direte che il vino per limpidezza é
perfetto.
170. Esternamente le bottiglie debbono anche esser bellissime di
forma e di addobbi, bene ed ermeticamente turacciate, col collo ed il
turacciolo ricoperto e garantito di capsula metallica, con elegante e semplice
etichetta portante il nome e l’età del vino, nette, pulite, brillanti, insomma
appetitose invitanti, agacantes
direbbero i francesi, come una giovine sposa preparata pel talamo nuziale,
onde la loro comparsa sui deschi noblii ed opulenti non ripugni e faccia
contrasto cogli altri apparecchi.
171. Le bottiglie esser debbono di vetro cotto con fuoco di legna e
non di carbon fossile, tanto alla prima quanto alla seconda cottura, cioè a
quella del vetro ed all’altra della bottiglia fatta, detta in termine di
fabbrica ricotta, onde non avvengano
nel vino depositi di materie estranee, e non si alteri mai l’aroma (bouquet),
specialmente se si vogliono conservar lungamente, o sono destinati a lunghi
viaggi; lo che non si ottiene o difficilmente ed imperfettamente con le bottiglie
fabbricate con carbone di terra. Diffidate pure delle bottiglie che si vendono
sotto la qualificazione di ricotte con
fuoco di legna, giacché
quando ha luogo questa operazione secondaria, il vetro della bottiglia é già
solidificato, e la ricottura con fuoco di legna non può modificare la sua tintura
nè dissipare gli inconvenienti derivati dall’impiego del carbon di terra nella
fusione del vetro.
172. Sieno i turaccioli di sughero di Spagna purificato, senza pori
nè carie, fabbricati a mano e di forma cilindrica non conica, e forzati nel
collo della bottiglia a macchina. Spesso la cattiva qualità del turacciolo
rovina i migliori vini
perchè sotto la pressione della macchina vomitano nel vino tutto 1’estraneo che
contengono internamente.
173. Il vino in bottiglie migliora infinitamente e finisce ivi di
sviluppare tutte le sue qualità, tanto più per quanto più lungamente vi dimora.
Però non deve essere imbottigliato se non dopo di aver compito tutte le
fermentazioni nei fusti e di essere arrivato alla sua completa maturazione ed
assolutamente limpido e brillante. Sarebbe impossibile fissar l’epoca dello
imbottigliamento pei diversi vini; in questa materia é solo giudice il busto
purgato e 1’occhio perito dell’enologo intelligente e conoscitore dei vini
che maneggia. Solamente consiglierò in tesi generale di non imbottigliare i
nostri vini da pasto prima di 15 o 18 mesi dall’epoca della vendemmia, cioè nel
febbraio o marzo dell’anno seguente a quello in cui furono vinificati. Pei
vini-liquori poi é molto più difficile fissarne l’epoca anche approssimativamente,
ma certamente mai prima del quarto o quinto anno.
174. Generalmente é questo lo scoglio contro cui si infrange l’abilità
di quasi tutti gli enologi specialmente in Sicilia. É difficile invero il
conoscere quando un vino ha compiuto tutte le sue fermentazioni anche
insensibili, quando sia perfettamente ossigenato, quando infine nulla più gli
resti da acquistare nel fusto, per cui sia arrivato il momento di conservarsi
gelosamente nelle bottiglie questi pregi. In generale ne giudicherete al color
franco, alla limpidità perfetta, all’aroma grato e soddisfacente, al
sapore che non lascia dissonanze al palato mentre lo ricrea e lo solletica.
175. Da quanto ho detto e dalla propria esperienza sono indotto a
consigliare di non mettere in vendita i vini se non almeno sei mesi dopo che
sono stati imbottigliati. Quanto più tardi é sempre meglio, perchè dopo uno o
due anni di permanenza nella bottiglia il vino é tutt’altra cosa di quel che
era nell’imbottigliarlo, assai più perfetto dello stesso vino lasciato nei fusti,
e quasi irriconoscibile.
176. La messa in bottiglie é una delle operazioni più minuziose e
più difficili dell’enologia, epperò é la parte più claudicante degli
stabilimenti vinicoli ordinariamente, imperocchè bisogna accoppiare ai precetti
dell’arte il gusto, stava per dire il genio dell’artista; e questa abilità non
si acquista che dopo molti anni di pratica intelligente, e dietro minuto esame
delle bottiglie che si vedono uscire dagli stabilimenti più reputati.
177. I vini più deliziosi e più perfetti o i gran vini possono
essere deteriorati dalle minime oscitanze in questa operazione, che dicesi messa
in bottiglie, e che io volentieri chiamerei la parte estetica
dell’enologia. Quindi non laverete mai abbastanza le vostre bottiglie sempre
con acqua nuova tanto internamente quanto esternamente, non servendovi mai di
pallini di piombo ma di catenella di ferro o meglio di grossa arena. Non le
riempirete se non 24 ore dopo che saranno ben sgocciolate ed asciutte, e dopo
che le avrete nuovamente sciacquate con buon vino o con spirito. Non vi
servirete che di imbuti di cristallo o di vetro, e di boccali di terraglia fina
o meglio porcellana, senza screpolature, avendo la maggior cura perchè tutti i
vostri utensili sien pulitissimi.
178. Mi accorgo che l’amor dell’arte mi trascina, e temo di aver
soverchiamente annoiato i lettori, sebben parmi che talune prescrizioni non
sono mai abbastanza ripetute. Però non posso dipartirmi dal soggetto senza notare
che tutto questo per una industria bambina, come è da noi, costa molto tempo e
spese, tanto più che ordinariamente non si impara che dopo molti errori, che
pur si risolvono in spese maggiori. E se è vero come si predica generalmente da
tutti, e molto più dai nostri governanti, che l’Italia, redenta già
politicamente, dovrà oggi materialmente redimersi promovendo la sua agricoltura
e le industrie che ne derivano; se è vero che una delle industrie agricole
della quale si aspetta grande incremento della ricchezza italiana, che è e sarà
per un gran pezzo un desiderio, è precisamente l’enologia; non saprei con
quanto buon senso, mentre da una mano si decretano esposizioni e premi e
medaglie per spingerla ed incoraggirla a mettersi a livello delle altre
nazioni, dall’altro poi se le tagliano, quasi direi, i nervi per impedirle di
muoversi, di progredire, di migliorare, opprimendola con dazi interni ed
esterni, dopo di avere assoggettato i vigneti a pesante imposizione fondiaria!
179. Proclamiamo da un lato con paroloni la libertà di commercio
con tutte le altre libertà, e molti trattati concludiamo con tutte le nazioni
per consacrare e tradurre in fatto questo fecondo principio, anche a scapito di
diverse industrie nazionali che stavano pigliando il loro slancio; e poi
vediamo colpita di dazio la esportazione all’estero dei nostri vini, e resa
difficile la loro circolazione nel regno pel dazio consumo! In una recente tornata
dei nostri Comuni, la Commissione della Camera proclamava altamente, nel
riferire sulle petizioni di molti Comizi agrari invocanti l’abolizione del
dazio di sortita dei nostri vini, che «1’avvenire dell’ agricoltura italiana è
riposto nell’incoraggiare la produzione del vino, olio, ecc., per cui conveniva
favorire la esportazione dei prodotti agrari che non temono la straniera concorrenza,
come opera saggia». Dopo siffatte premesse ognuno si aspettava una conclusione
favorevole alle petizioni de’ Comizi, ma la Commissione propose il loro rinvio
agli archivi, cioè al Camposanto! «Bella logica!» esclama giustamente un
giornale di Torino.
180. Questo dazio ingiusto che non produce alla finanza dello Stato
se non scarsamente 200 mila lire, ha dimezzato e forse più che dimezzato l’uscita
dei nostri vini, ed esige una spesa forse superiore al magro introito. Questo,
che è già un grande errore economico, sarebbe anche poco se non fosse aggravato
dalle visite doganali, dalle verifiche che guastano gli imballaggi, dalle vessazioni,
dalle pedantesche formalità, non scevre mai da perditempo da inconvenienti e da
avarie che spesso rovinano le spedizioni prima di imbarcarle, il che tutto si
traduce in aumento di spese che triplicano il dazio, ed in pastoie che
scoraggiano gli speditori.
181. Molto più illogico ed ingiusto è il dazio consumo che inceppa
il commercio interno e la circolazione dei vini; che spesso si paga due e tre
volte sulla stessa bottiglia (incredibile ma vero!), dura condizione alla quale
deve soggiacere il contribuente pel suo minor male e per economia di tempo; che
restringe il consumo ed arresta lo sviluppo della produzione; che causa una
notabile perdita di tempo; che spinge alla frode ed al contrabbando con
positivo danno della salute pubblica e dell’erario; e che è utile soltanto a
pochi pubblicani che comprano i dazi ed a pochissimi che li vendono, i quali
tutti arricchiscono a spese dei produttori e dei consumatori, senza che lo
Stato ne approfitti, nè le Comuni che oggi lo seguono nella spensieratezza
dello spendere e nei modi inconsulti dello imporre.
Fine